Appare quanto mai evidente che siamo di fronte a una fase delicatissima del conflitto in Ucraina, in cui si giocano carte che, per certi versi, potrebbero risultare decisive per i destini della crisi e non solo. In questo momento critico si assiste a un pericoloso gioco al rialzo dalle parti, in cui ogni attore azzarda mosse dalle conseguenze potenzialmente dirompenti.
La prima mossa azzardata è stata quella di Putin, in un duplice senso: anzitutto in termini militari e poi dal punto di vista diplomatico. Militarmente il presidente russo ha spinto le proprie truppe ben oltre quanto preventivato da molti osservatori. Se infatti almeno inizialmente si era ipotizzata una mossa tattica sulla scorta di quanto fatto in Georgia nel 2008 e in Crimea otto anni fa, nei giorni scorsi l’avanzata russa ha seguito tre direttrici: dal sud, dalla stessa penisola che si affaccia sul Mar Nero verso l’interno; dal sudest, dalle regioni del Lugansk e Donetsk, oggetto della contesa e, poco più a Nord, verso la città di Kirkev; e poi dal nord, dal territorio bielorusso per penetrare in direzione della capitale Kiev. Dunque non un’azione limitata, volta all’ottenimento immediato e certo delle regioni russofone di cui era stata dichiarata l’indipendenza, ma su vasta scala, con l’altro obiettivo sotteso di destituire Zelensky e manovrare il governo ucraino in senso apertamente russofilo.
Il secondo azzardo di Putin ha riguardato l’aumento della tensione diplomatica, evocando implicitamente l’uso delle armi nucleari. Si tratta di mosse che rispondono alla nota aggressività russa, derivante anche dalla perdurante sensazione di accerchiamento occidentale, ma che comportano un grado di rischio assai più elevato dei vantaggi, rispetto alle tattiche usate negli anni precedenti: fermarsi alle due repubbliche avrebbe garantito con ogni probabilità una conclusione immediata e pressoché certa del conflitto a proprio favore, senza innescare una risposta massiccia. D’altro canto, questo avrebbe garantito una posta in gioco più alta, relativa alla sicurezza di avere un vicino di casa gestito dal Cremlino e con la garanzia di mantenere la Nato e l’UE ben distanti dal proprio territorio e, in un’ottica futura, una maggiore stabilità interna e internazionale.
L’azzardo è anche quello ucraino e si snoda su fattori tattico-strategici e identitari: opporre una strenua difesa all’avanzata russa, chiedendo il sostegno internazionale e, come fatto ieri, l’adesione all’UE, rappresentano momenti inaspettati anzitutto per Mosca e che certamente hanno rallentato i piani militari russi. Il rischio è chiaramente rappresentato dalle possibili rappresaglie cui va incontro non solo il presidente ma anche il popolo, a cui a più riprese Zelensky si è rivolto nei giorni scorsi. Chiederne il diretto coinvolgimento significa porre lo scontro su un piano che, a lungo andare, minerebbe l’intera tenuta sociale del paese, soprattutto se si comparano le forze militari in campo. In questo senso, l’appello all’identità nazionale e all’appartenenza territoriale appaiono come i perni attorno a cui l’azione di resistenza – come d’altronde è sempre stato nella storia delle resistenze – si snoda.
Da parte occidentale, abbiamo assistito ad almeno un doppio azzardo, proprio mentre si confermava le voci di un avvio alle fasi di dialogo tra le parti a Gomel, città bielorussa non casualmente al confine tra il paese di Lukashenko e l’Ucraina. Gli Stati Uniti per bocca del presidente Biden hanno evocato la possibilità alternativa a quella delle sanzioni di un terzo conflitto mondiale. Non si è dato forse opportuno rilievo a questa affermazione che, se fosse stata fatta da altri presidenti, avrebbe probabilmente scatenato ondate di reazioni. Eppure Biden non ha nascosto che si tratta di una possibilità concreta. Evocare, seppur lontanamente, un simile scenario significa evidentemente voler alzare il livello dello scontro o rispondere alle “provocazioni” russe, col rischio di aumentare la probabilità di reazioni scomposte da parte di un avversario che si sente, a ragione o a torto, “accerchiato”. Da parte europea, dopo gli iniziali tentennamenti, dopo le prime mosse a tratti molto timide e disunite di cui abbiamo parlato pochi giorni fa e che si sono limitate all’ambito delle sanzioni, ieri si è compattato dichiarando l’invio di aiuti militari e non solo all’Ucraina, anche da paesi tradizionalmente neutrali come la Svizzera o la Svezia. A ciò si aggiungano le parole di un avvicinamento ideale dell’Ucraina all’UE, ribadite anche dallo stesso Zelensky.
Si tratta di azzardi, anche in questo caso? A giudicare dalle tempistiche e dalle modalità adottate, si direbbe di sì. Un simile appoggio militare, in una fase di estrema delicatezza diplomatica, il giorno stesso (anzi, nelle stesse ore) dell’accordo trovato per avviare negoziati, può apparire: a) come il tentativo di ammorbidire la posizione russa e di far comprendere che l’Ucraina non rimarrà da sola oppure b) peggio, come un passo avventato che di certo non contribuisce a creare il miglior clima per le trattative. Soprattutto alla luce delle incertezze iniziali, sembra rispondere all’esigenza di dare concreto supporto al paese aggredito, ma comporta dei rischi enormi.
Un simile atteggiamento, rimarcato in Italia dalle parole del Ministro Di Maio sulle relazioni tra Roma e Mosca che non saranno mai più come prima, comporta infatti almeno tre evidenti pericoli: a) contribuire al caos interno all’Ucraina e al coinvolgimento di civili nel conflitto aperto, con potenziali conseguenze di lungo periodo in termini di stabilità interna e internazionale potenzialmente enormi; b) in caso di una sconfitta ucraina, l’intero continente europeo, oggi dipendente da Mosca per circa il 40% delle forniture di gas, rischierebbe di troncare definitivamente quel canale di relazioni energetiche e commerciali che ci legano da decenni all’orso russo, con conseguenze sociali ed economiche per l’Europa disastrose; c) in tal caso, si riconfigurerebbero anche gli equilibri mondiali, in un potenziale e pericoloso avvicinamento della Russia alla Cina, che rischierebbe di mettere in crisi – o quantomeno di rivedere – drasticamente i rapporti internazionali di molti paesi europei e occidentali.
Dall’altra parte, in caso di vittoria, si potrebbe arrivare non solo alla sconfitta militare di Putin ma anche al suo indebolimento interno – che pare già emergere in virtù delle ripercussioni economiche – e che, alla lunga, potrebbe rimodulare la geografia politica interna al mondo russo a favore di nuovi partiti e di posizioni più vicine, ed evidentemente convenienti, alla stessa Europa. A sua volta, una vicinanza politica di una Russia stravolta internamente, porterebbe a una diversa e assai più forte posizione europea e una nuova fase di relazioni con Mosca. Un azzardo che dunque, come tale, comporta rischi altissimi e altrettanto potenziali benefici, con i quali dobbiamo fare, necessariamente, i conti.
Alessandro Ricci