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RubricheFaro AtlanticoAtomiche USA in Europa: Berlino ne discute

Atomiche USA in Europa: Berlino ne discute

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L’ annosa questione dello stazionamento di bombe atomiche statunitensi su suolo europeo è stata riaperta lo scorso 2 maggio, quando il rappresentante dei socialdemocratici al Bundestag Rolf Mützenich ha chiesto che le armi nucleari vengano ritirate dal territorio tedesco perché lo stazionamento di questi ordigni “non aumenta la nostra sicurezza, anzi ha l’effetto opposto”. 

Le reazioni della politica tedesca

“Dopotutto, altri paesi lo hanno fatto senza mettere in discussione la NATO” – ha ricordato Mützenich alludendo, per esempio, al ritiro delle testate statunitensi dalla Grecia nel 2001. L’esponente dell’SPD non ha mancato di indicare come motivazione della richiesta il rischio e l’instabilità derivanti dalla strategia nucleare dell’amministrazione Trump, che “ha annunciato che le armi nucleari non sono più solo un deterrente, ma armi che possono essere utilizzate per condurre la guerra”. Le dichiarazioni di Mützenich, ben viste dalla Linke, dai Verdi e da gran parte dell’opinione pubblica, sono però state tacciate di irresponsabilità dagli ambienti più atlantisti della CDU. È infatti di poche settimane fa l’annuncio della ministra della Difesa e Presidente della CDU Annegret Kramp-Karrenbauer, di aver deciso la sostituzione degli ormai obsoleti Tornado PA-200 con Eurofighter e Hornet F/A-18. Non solo i cristianodemocratici, ma anche il ministro degli Esteri Heiko Maas ha rifiutato la proposta del suo compagno di partito di azzerare gli stazionamenti nucleari sul territorio tedesco.

Un dibattito ricorrente

È vero, non si tratta di una decisione definitiva, ma di un botta e risposta nel dibattito politico. Queste pulsioni antinucleari rimarranno nell’aula del Bundestag o avranno la capacità di plasmare la politica estera e di difesa di Berlino? Ciò che non possiamo scorgere nel futuro, lo possiamo osservare nel passato. Non sarebbe infatti la prima volta che il governo tedesco si fa promotore di un ‘campo progressista’ che chiede all’Alleanza una riconsiderazione del ruolo dell’arsenale nucleare tattico dispiegato sul proprio suolo. Nel secondo governo Merkel (2009-2013) fu la figura di Guido Westerwelle, il ministro degli Esteri liberale, a portare l’antinuclearismo nel programma governativo. La presa di posizione fu tale da arrivare a promuovere nel febbraio 2010 l’invio di una lettera al Segretario Generale della NATO nella quale Westerwelle scrisse insieme agli omologhi di Belgio, Lussemburgo, Olanda e Norvegia per chiedere che le armi nucleari tattiche su suolo europeo fossero incluse in una logica di progressivo disarmo.

Stando alla prudente reazione di Maas, non sembrerebbero prospettarsi cambiamenti repentini. Alcune fonti di stampa, non escludendo prese di posizione più nette, si spingono comunque a ipotizzare uno spostamento delle testate USA dalla base tedesca di Büchel alla Polonia. Vale la pena ricordare che, se questa decisione dovesse mai essere presa, i Paesi dell’Alleanza verrebbero meno agli impegni presi nell’Atto Costitutivo NATO-Russia del 1997, con cui promettevano di non avere “nessuna intenzione, nessun piano e nessuna ragione” per stazionare armi nucleari sul territorio dei nuovi alleati dell’Est Europa.

Gli oneri della condivisione nucleare NATO

È un riaffiorare carsico quello della chiamata a liberarsi dagli stazionamenti nucleari statunitensi e da ciò che comportano in termini di costi, strategia militare e implicazioni di diritto internazionale. L’impegno a partecipare direttamente nel quadro di condivisione nucleare NATO porta infatti con sé un onere finanziario non di poco conto legato principalmente alla necessità di ammodernare e mantenere i propri aerei da combattimento a capacità duale. Su questo fronte, mentre l’Italia ha optato per gli F-35, la strategia della Germania è stata di temporeggiamenti e parsimonia. Oltre all’aspetto finanziario, ospitare gli ordigni statunitensi sembra comportare anche un costo reputazionale nell’arena politica del regime di non proliferazione. È dalla fine degli anni Novanta che Stati come Egitto, Iran e Sud Africa accusano la condivisione nucleare NATO di contravvenire agli obblighi del Trattato di Non Proliferazione. A questi si è aggiunta dal 2015 la Russia, che ha da poco ribadito di considerare gli stazionamenti nucleari USA in Europa “contrari allo spirito e alla lettera” del Trattato, di cui quest’anno si celebra un burrascoso cinquantesimo anniversario. Difficile credere che le critiche russe e dei non allineati possano minare alle fondamenta di un trattato di tale importanza e longevità, ma il costo per gli accusati c’è ed è anzitutto quello di doversi difendere.

La posizione dell’Italia

E in Italia? Il nostro paese ospita, nelle basi di Ghedi e Aviano,  quaranta armi nucleari statunitensi. Roma ha da sempre mantenuto un atteggiamento più cauto rispetto alle fughe in avanti tedesche, cercando di fungere da mediatrice rispetto al conservatorismo degli alleati orientali, affezionati alla dottrina della ‘deterrenza estesa’ nei confronti del vicino russo e contrari a ogni cambiamento dello status quo. Nel nostro dibattito parlamentare il tema della partecipazione diretta alla condivisione nucleare NATO è stato sollevato in mozioni ed interpellanze di deputati e senatori del Movimento Cinque Stelle e di Liberi e Uguali, nonché da un disegno di legge costituzionale proposto dalla senatrice De Pin (M5S) nel 2015. Palazzo Chigi, seppur non entusiasta del basso valore operativo di questi ordigni tattici, che secondo l’ex Presidente Cossiga durante la Guerra Fredda dovevano poter colpire Praga e Budapest, sembra continuare ad anteporre la coesione dell’Alleanza Atlantica ad ogni ipotesi alternativa.

In Germania il socialdemocratico Mützenich ha soffiato sul braciere di una questione tanto sensibile quanto annosa. Se le fiamme dovessero divampare, rimane da vedere se i sostenitori dell’atlantismo a tutti i costi saranno in grado di spegnere quel fuoco. Per certo, un dibattito pubblico sullo stazionamento delle bombe nucleari appare lecito, se non necessario, tanto in Germania quanto in Italia, due Paesi che in questo campo condividono una storia comune e in cui su un altro tipo di nucleare – quello civile – le opinioni pubbliche hanno saputo mobilitarsi e i decisori politici agire con fermezza.

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