La complicata relazione tra la Chiesa di Papa Francesco e la Cina di Xi Jinping, all’ombra del desiderio del primo di giungere a una risoluzione del conflitto russo-ucraino, mentre il leader cinese ne raccoglie frutti e opportunità.
Nell’enciclica Fratelli Tutti Papa Francesco indica di usare il denaro impiegato in armi e spese militari per costruire un Fondo mondiale destinato ai Paesi più poveri, così che i loro abitanti non siano preda di soluzioni violente o ingannevoli e costretti ad abbandonare le loro case in cerca di una vita dignitosa.
Per Francesco urge rivedere lo stile e l’efficacia dell’ars politica. Dialogo e fraternità sono fuochi essenziali per superare le crisi del momento presente. Rammenta alla comunità internazionale di ricercare soluzioni a scontri interminabili, che talvolta assumono fattezze di vere e proprie guerre per procura (proxy wars).
Dall’inizio del conflitto russo-ucraino nel febbraio 2022, ha più volte fatto appello alla pace, a rifondare un’architettura di pace a livello globale, dove la casa europea, nata per garantirla dopo le guerre mondiali, abbia un ruolo primario.
In una nota ufficiale della Santa Sede del 30 agosto 2022, è espressa una netta condanna verso “la guerra di ampie dimensioni in Ucraina iniziata dalla Federazione Russa”.
Per Francesco la guerra dilania il giardino della terra. Sacrilega è la guerra che si sta combattendo nel cuore del Vecchio Continente, che lascia impassibili quei soggetti che la decodificano come una disputa esclusivamente intraeuropea e che al Sud globale pare l’ennesimo conflitto fra europei bianchi cristiani.
La stragrande maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite, 141 su 193, votava il 2 marzo dello scorso anno a favore della risoluzione di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina. Altri contro, gli astenuti 35. Tra questi, partner storici della Federazione Russa nel Sahara-Sahel, l’India e la Cina che, da una prospettiva demografica, portavano i pochi Paesi astenutisi a rappresentare la maggioranza della popolazione mondiale.
Contraria al secessionismo e alla violazione dell’integrità territoriale che teme di patire a Taiwan, in Tibet e Xinjiang, Pechino si mostra beneficiaria delle ostilità e dell’isolamento occidentale di Mosca. Acquista gas siberiano riducendone il prezzo, si percepisce alla testa di un fronte meridionale che pure non le è cordiale e lungi dall’essere anch’esso equidistante e ostile alla Russia.
Dallo scoppio del conflitto in Ucraina, Pechino invoca la pace ma sostiene le ragioni russe contro la supposta assertività della Nato e dell’Occidente ai confini della Russia. Fatto che chiarifica la posizione defilata di Xi Jinping, di recente snocciolata dall’ambasciatore della Repubblica Popolare a Bruxelles. Fu Cong assicura, in una dichiarazione rilasciata di recente al New York Times, che il suo Paese non fornirà armi a Mosca e suggerisce ai Paesi dell’Unione di liberarsi dalla morsa degli americani e valicare le barriere commerciali con il Dragone. Tant’è che Macron e Ursula von der Leyen, nei rispettivi viaggi separati in Cina, recapitano a Xi questioni commerciali e istanze legate al conflitto. La Presidente della Commissione Europea già critica sul piano in dodici punti di Pechino.
Presentato a febbraio, nel primo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina, il “piano di pace” della Repubblica Popolare è contenitore di enunciazioni quasi profetiche che incespicano nella difesa della sovranità di tutti i Paesi, e richiamano all’abbandono della mentalità da Guerra Fredda, all’assistenza umanitaria, alla riduzione dei rischi strategici. Auspica la promozione di una ricostruzione post-bellica a cui la Cina contribuirebbe col sostegno alle aree squarciate dal conflitto. Dialogo e negoziato spiccano come la sola via percorribile per sciogliere la crisi ucraina. Il Dragone chiede il cessate il fuoco.
Se l’inganno è nel cuore di chi trama il male, la gioia invece è di chi promuove la pace, proprio come negli intenti della Cina che, come una lanterna Kongming, anela a portare i desideri dalla terra al cielo, col rischio di ravvivare in Papa Francesco la speranza di smorzare il conflitto e di riscoprirla disposta ad un dialogo più inclusivo. Intanto la Chiesa di Roma percorre il sentiero che conduce verso l’Est globale. Per un cattolicesimo che sia davvero universale. Infaticabile, come mai prima d’ora, verso Pechino.
Il XXII secolo vedrà la maggioranza della popolazione mondiale concentrata in Africa e Asia, con l’Europa quasi fanalino di coda nella conta demografica globale. Perciò di vitale importanza per la Chiesa di Roma è l’avere costruito proseliti nel Sud e nell’Est del pianeta, ben oltre la Ostpolitik del cardinale Agostino Casaroli che, agli “Esteri” della Santa Sede nel 1967, rifiutava il principio della contrapposizione a cui non rinunciavano cattolici occidentali e regimi comunisti.
Già nel 1993, in una conferenza tenutasi ad Hong Kong, Joseph Ratzinger centrava il proposito di trasmettere il Vangelo con un più profondo dialogo interculturale, convinto che piantata la croce in Europa nel primo millennio cristiano e nel secondo in America e Africa, durante il terzo millennio una grande messe di fede sarebbe stata raccolta nel vasto e vitale continente asiatico. Nella lettera ai cattolici cinesi nel 2007, auspicava un accordo con le autorità di Pechino. Alle parole seguirono i fatti, tanto è che Benedetto XVI approvò il progetto di accordo sulla nomina dei vescovi in Cina, firmato soltanto nel 2018, quando Papa Francesco realizzò le istanze dei vescovi “illegittimi”, lenendo con fare energico le sofferenze per la separazione dalla Chiesa di Roma. Provvisoria e da rinnovarsi ogni due anni, l’intesa fa del Pontefice parte attiva nella nomina dei vescovi cinesi, la cui fedeltà a Roma aveva a suo tempo convinto il governo cinese ad abbandonare il proposito di nazionalizzare la Chiesa cattolica.
Pechino sembrerebbe però interpretare ad libitum l’intesa con Roma e invia segnali di non facile comprensione al Vaticano. Alla violazione dell’intesa, relativamente alla nomina del vescovo ausiliare della diocesi di Jangxi e denunciata a novembre 2022 dalla Santa Sede, si aggiunge la nuova vicenda legata alla diocesi di Shanghai. Il nuovo vescovo della cattedrale di Sant’Ignazio, Monsignor Shen Bin, è a capo del Consiglio dei vescovi cinesi, organo non riconosciuto dal Vaticano e considerato legato al Partito Comunista cinese. Nel suo discorso d’insediamento fa riferimento alla “tradizione dell’amore per la patria” che sottenderebbe una certa propensione alla sinizzazione del Cattolicesimo in Cina. Senza consultare la Chiesa di Roma, proprio il Consiglio ha nominato unilateralmente Shen Bin vescovo della Perla d’Oriente. Pur non trattandosi di una investitura ex-novo (de facto Shen Bin è stato trasferito da una diocesi, Haimen, di cui era già vescovo riconosciuto ufficialmente nel 2010 dalla Santa Sede), la questione potrebbe avere implicazioni rilevanti su due faccende da risolvere. La prima riguarda il destino di Ma Daqin, da dieci anni confinato nel seminario di Sheshan a seguito della sua dimissione dall’Associazione Patriottica dopo la nomina a Vescovo di Shangai; la seconda, la nomina del successore di Shen Bin ad Haimen. Entrambe le questioni offrono al governo cinese l’opportunità di tendere una mano, oppure no, al Vaticano.
In Cina sono presenti circa 70 milioni di cristiani, 12 dei quali cattolici, percentuale che, pure irrisoria rispetto alla totalità della popolazione cinese, rappresenta una comunità dinamica in crescita che fa ben sperare in quella rigogliosa messe preconizzata da Joseph Ratzinger.
L’accordo tra Vaticano e Cina Popolare è stato più volte osteggiato dagli USA, prima dall’amministrazione Trump e poi da quella Biden. Segnali chiarissimi dell’intolleranza statunitense al sodalizio tra Roma e Pechino, le cui movenze rispetto al conflitto peggioreranno o mitigheranno l’irrigidimento di un equilibrio internazionale percepito come già polarizzato. Nonché risposta alla domanda di Papa Francesco, che vorrebbe la Cina impegnata proattivamente per la pace, perché fine ultimo del dialogo fra potenze è custodire la vita umana.
Qualora la Repubblica Popolare, a dispetto di quanto ci si aspetti, spalleggiasse la Federazione Russa nel contenimento della controffensiva di primavera ucraina tramite la fornitura di droni e artiglieria, il dialogo tra Francesco e Xi Jinping potrebbe subire una battuta d’arresto o seguitare a dispetto delle tenebre. Come già Benedetto XVI, il Santo Padre confida nello splendore dell’esperienza sapienziale del popolo cinese.
Erede del Regno di Mezzo, Pechino classifica i Paesi del mondo sulla base della conformità alle istituzioni della politica e al “modus operandi” cinesi. L’antico filosofo Confucio, con lo sguardo rivolto al mondo terreno, non indicava alcuna teologia della storia che mostrasse la via per la redenzione individuale.
Xi annaspa nel ciclopico progetto BRI (Belt and Road Initiative), che si inceppa in Ucraina, ma diventa il maggior acquirente di idrocarburi russi, sfruttando i prezzi al ribasso indotti dalle sanzioni europee e statunitensi a Mosca. Quasi assiomatico è che il prolungamento dell’attuale conflitto estenderebbe i vantaggi di Pechino, tradendo l’immagine di messaggero di pace auto-evocata con il piano in dodici punti.
Cinesi e Russi si riscoprono vicendevolmente utili nella competizione con gli Stati Uniti, tant’è che la Repubblica Popolare percorre la rotta del gas orientale col Power of Siberia, che serpeggia nello spazio geografico della primigenia inconciliabilità delle loro ambizioni. Le potenze del pianeta polarizzano in Asia i loro interessi e le loro sfide. Il conflitto russo-ucraino, influenzandone in parte gli esiti, produce frutti amari che costano meno e che potrebbero giovare di più di una pace vera. Che per Papa Francesco necessita di testimoni convinti, aperti al dialogo, senza esclusioni né manipolazioni. Sola sostanza utile a rafforzare la fiducia reciproca per consegnare ai popoli una pace duratura, sul fondamento di un nuovo sistema di convivenza che non abbisogni di deterrenza, armi e alleanze politico-militari.
In un mondo ancora pensato come a uno scacchiere su cui i potenti escogitano mosse per estendere il loro predominio, anche la guerra in Ucraina, per Francesco, “è frutto della vecchia logica di potere che domina la cosiddetta geopolitica”.
Senza sosta, nel tempo della tracotanza, egli pronuncia parole che riverberano da lontano eppure udite, da chi vuole, chiare e lungimiranti.