Gli scontri tra milizie rivali a Tripoli del 26 e 27 agosto hanno confermato il quadro d’instabilità strutturale della Libia, un failed state a poche miglia marine dalle coste italiane. Nelle strade della capitale, provocando secondo cifre fornite dal Ministero della Salute tripolino 32 morti e 159 feriti, si sono affrontate la “Tripoli Revolutionaries Brigade” (TRB), guidata dal comandante Haitham Al-Tajouri, e la “Stabilization Support Apparatus” (SSA), comandata da Abdel-Ghani Al-Kikli.
Mentre la SSA è una “creatura” del vecchio governo Sarraj, istituita per garantire la sicurezza delle istituzioni governative tripoline nella fase più violenta ed incerta della guerra contro il maresciallo Haftar, la TRB è una delle unità veterane della guerra del 2011 contro Gheddafi, inizialmente reclutata a Tarhuna, nell’entroterra tripolitano, questa milizia è divenuta poi parte integrante dell’intricato panorama politico-militare della capitale.
Mentre la “Stabilization Support Apparatus” è rimasta una milizia vicina agli ambienti governativi espressione del primo ministro Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh, la “Tripoli Revolutionaries Brigade” s’è avvicinata al premier “parallelo” della Cirenaica Fathi Bashagha ed è considerata vicina agli ambienti del “partito filo-turco” di Tripoli, per quanto ormai le distinzioni politiche in questa lotta di potere senza scrupoli siano alquanto evanescenti.
La TRB è riuscita a sconfiggere le forze della SSA, prendendo il controllo del quartier generale della sicurezza interna in Al-Jumhuriya Street, requisendo anche dozzine di auto ed arrestando tre persone. Da vari attori internazionali interessati alle vicende libiche sono arrivati inviti a mantenere la calma ed a non utilizzare gli scontri di Tripoli quale pretesto per innescare un nuovo conflitto. In particolare, a farsi sentire sono stati il Regno Unito, l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, mentre l’ONU, tramite un comunicato della sua missione in Libia, UNSMIL, ha espresso profonda preoccupazione per gli scontri armati in corso, compresi i bombardamenti indiscriminati medi e pesanti nei quartieri popolati da civili a Tripoli, che secondo quanto riferito hanno causato vittime civili e danni alle strutture civili, inclusi gli ospedali. L’UNSMIL ha chiesto l’immediata cessazione delle ostilità, ricordando a tutte le parti i loro obblighi ai sensi dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario di proteggere le strutture ad uso civile ed i cittadini.
Appelli caduti nel vuoto in quanto, nonostante i combattimenti al momento siano cessati, di fatto tra il governo di Dbeibeh e quello di Bashagha ci sono accuse incrociate su chi abbia dato inizio agli scontri dei giorni scorsi. Diverso, invece, il ruolo della Turchia di Erdogan, una potenza che, assieme alla Russia, in Libia ha acquisito un peso sempre maggiore dal 2020 in poi, grazie alla scelta di intervenire direttamente sul territorio.
A tal proposito è utile notare che i mercenari siriani al soldo della Turchia stanziati nella base di Yarmouk, abbiano ricevuto l’ordine di non immischiarsi nei combattimenti di Tripoli. Pare, inoltre, che da cinque mesi i combattenti siriani del Syrian National Army (SNA) presenti in Libia non vengano pagati né abbiano ricevuto le indennità connesse, così da generare un forte malcontento nel campo di Yarmouk, tale da sconsigliare ai loro referenti turchi di optare per qualunque misura “attiva” nell’attuale contesa tra SSA e TRB. Nonostante le oggettive difficoltà di mantenere una presenza forte nella parte occidentale del Paese, specie ora che il fronte filo-turco appare sfilacciato, la Turchia ha tentato di inviare altri 75 mercenari siriani in Libia, progetto poi abortito a causa del contemporaneo inizio delle azioni militari di Ankara nella Siria settentrionale e nel Kurdistan iracheno. Pur volendo mantenere una presenza (principalmente proxy) in Libia, la Turchia sta incontrando qualche ostacolo.
Il Paese resta, dunque, preda delle milizie e nonostante il loro disarmo fosse uno dei punti programmatici di Dbeibeh, in conformità all’agenda dell’UNSMIL, di fatto anche lui ne è diventato ostaggio in quanto, in una situazione d’emergenza e di guerra a bassa intensità, qualunque esponente politico ha la necessità di appoggiarsi e servirsi (perciò anche “servire” a sua volta) delle milizie che controllano le strade della capitale ed anche i pozzi petroliferi a sud.
E proprio l’estrazione, la raffinazione e l’esportazione del petrolio, a causa della presenza capillare delle milizie – che creano veri e propri potentati locali impermeabili all’influenza dell’autorità centrale – nelle zone di produzione, ha fatto dell’oro nero un’arma politica con un enorme potenziale di ricatto grazie allo strumento del blocco ad intermittenza di estrazione ed esportazioni. Le vicende legate alla ristrutturazione dei vertici dirigenziali della National Oil Corporation (NOC), la compagnia petrolifera statale libica, con il tentativo di estrometterne il presidente Mustafa Sanalla, mostrano quali progetti di destabilizzazione politica (e, di conseguenza, militare) vi siano attorno alla NOC.
In uno Stato produttore di petrolio coinvolto in una guerra civile, la neutralità della compagnia petrolifera pubblica deve essere garantita. Se la NOC viene “politicizzata” e ridotta a strumento di ricatto nelle mani di Tripoli o di Sirte-Bengasi, allora quello sarebbe un ulteriore passo verso il baratro della recrudescenza della guerra civile con tutto quel che ne consegue.
Senza contare che, dinanzi all’impatto devastante che la guerra russo-ucraina e la politica sanzionista contro Mosca hanno avuto sul mercato delle fonti energetiche, ogni blocco della produzione petrolifera libica – dove anche ENI ha una quota ed un ruolo importanti – costituisce una minaccia per la sicurezza energetica dei Paesi europei e dell’Italia in particolare.
Per il nostro Paese l’instabilità libica è un problema legato sia alla sicurezza nazionale che alla proiezione d’influenza, coinvolgendo l’aspetto sia “difensivo” che “offensivo” della politica estera. La triade d’interessi energetici, strategico-militari e di sicurezza interna (legata all’ondata incontrollata di immigrazione clandestina), messi a rischio dalla situazione nell’ex colonia di Roma, impone una riflessione ed un cambio di rotta strategico nell’area.
La Libia resta uno dei “poli critici” della geografia regionale mediterraneo-africana ed è una delle aree di primario interesse per l’Italia, la cui presenza può essere rafforzata solo attraverso una più attiva presenza politica, militare ed economica, che non devono essere un tabù. Praticamente irrilevante nelle vicende della guerra tra Russia ed Ucraina, l’Italia può comunque ambire a svolgere il ruolo di pivot nel Mediterraneo.
Se i maggiori successi per gli italiani dal 2011 ad oggi in Libia sono stati raggiunti dalla “diplomazia parallela” di ENI, è perché quella ufficiale dello Stato ha considerato di prioritario interesse il contrasto all’immigrazione clandestina, quando nella antica “quarta sponda” italiana le partite principali da giocare sono quella sul fronte energetico-petrolifero e su quello prettamente militare e d’influenza. Problematiche che, per avere un quadro completo e pragmatico, vanno considerate nel loro insieme e non a compartimenti stagni. La situazione in Libia merita attenzione, poiché avere a pochissima distanza dalle proprie frontiere uno Stato petrolifero (semi)fallito rappresenta un concreto rischio.
Invece nella campagna elettorale italiana, tutta concentrata sul “dilemma” russo-ucraino per quanto concerne la politica estera, di Libia e Mediterraneo allargato si parla poco e male.