Sono passati quasi tre anni dalla decisione di Arabia Saudita, EAU, Bahrein ed Egitto di rompere i rapporti diplomatici con il Qatar. L’accusa di sostenere il terrorismo islamico è solo uno specchietto per le allodole, il reale bersaglio dell’embargo è l’autarchia strategica del Qatar. Ad essere particolarmente preoccupata è l’Arabia Saudita che, considerandosi il leader dei Paesi del Golfo, non tollera disallineamenti o alcuna politica concorrenziale ai suoi obiettivi strategici. Doha, invece, non sembra più voler vestire i panni del vassallo saudita e da decenni punta a diventare un attore regionale di primo piano.
Avvenuta nel 2017, la rottura delle relazioni tra il Qatar e il Quartetto arabo, costituito da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (EAU), Bahrein ed Egitto, rappresenta l’ultimo atto di una crisi in corso da tempo. Il pomo della discordia è la politica regionale del Qatar, percepita dagli altri Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) come indipendente e concorrenziale rispetto ai loro interessi.
Le 13 richieste presentate al Qatar nel 2017 rappresentano quindi uno strumento di pressione volto a ridimensionare la politica regionale di Doha e riallinearla a quella degli altri Paesi del CCG. Per comprendere le motivazioni della crisi è dunque necessario analizzare l’evoluzione della politica regionale del Qatar negli ultimi decenni.
Fino agli anni Novanta, Doha è rimasta sotto l’ombrello saudita allo scopo di garantirsi sicurezza e stabilità. Il Qatar, sunnita, monarchico, dinastico e adagiato su immense risorse naturali, è stato a lungo considerato dall’Arabia Saudita un importante alleato regionale. Infatti, Doha rappresenta per Riyadh un tassello imprescindibile per completare l’arco di protezione orientale che va dal Kuwait all’Oman, passando da Bahrein, EAU e appunto Qatar. Questo arco rappresenta per l’Arabia Saudita la prima linea di difesa dall’Iran e, in seguito alla rivoluzione Khomeinista del 1979, Riyadh ha voluto rafforzarlo creando il CCG, organizzazione regionale nata nel 1981 per suggellare l’alleanza con le altre monarchie sunnite in ottica anti-iraniana.
Doha ha quindi seguito per decenni la traiettoria impostale da Riyadh. Ne è derivata una politica estera limitata e conservativa che ha relegato il Qatar in una posizione subalterna e marginale.
La politica regionale del Qatar inizia a cambiare dai primi anni Novanta. Innanzitutto, il fratello maggiore saudita attraversa una fase di forte crisi in seguito alla Guerra del Golfo del 1990-1991. La decisione di appoggiare la coalizione a guida statunitense e di ospitare circa 500 mila soldati “infedeli” sul suolo sacro dell’Islam scatena una forte opposizione interna alla monarchia degli Al Saud. Con Riyadh occupata dalle turbolenze interne, il Qatar si trova esposto a possibili pressioni esterne e decide, quindi, di rafforzare i suoi rapporti con gli Stati Uniti, con cui viene siglato un accordo per la costruzione dell’imponente base militare di Al Udeid. Tale scelta permette al Qatar di eliminare qualsiasi preoccupazione o minaccia esterna e di concentrarsi sulla ridefinizione del suo ruolo regionale.
È in questo contesto che emerge la figura di Hamad bin Khalifa Al Thani. Salito al potere nel 1995, Hamad delinea un nuovo obiettivo strategico per il Qatar: uscire dalla condizione di sudditanza e marginalizzazione per ottenere un ruolo di primo piano nello scenario Medio Orientale.
Il Qatar inizia quindi ad allontanarsi dai diktat sauditi e cerca di diversificare i suoi partner. In primo luogo, Doha intensifica i suoi rapporti con Teheran, sia per non finire schiacciata nella competizione tra Arabia Saudita e Iran, sia per definire lo sfruttamento del giacimento di gas naturale di South Pars/North Dome, condiviso con Teheran e principale fonte della ricchezza qatariota. Doha rafforza inoltre i suoi legami con entità non statuali legate all’Islam politico, come la Fratellanza Musulmana e Hamas, e gruppi di resistenza, come l’organizzazione di opposizione libica Lybian Islamic Fighting Group (LIFG).
Contemporaneamente, Doha riesce a sfruttare le sue risorse naturali per integrarsi nel sistema economico e finanziario globale, rafforzando così i suoi rapporti con l’Occidente. Il benessere e la ricchezza derivanti dalle rendite gasiere permettono alla monarchia degli Al Thani di assicurarsi la fedeltà della popolazione e di presentarsi al mondo come un Paese ricco, moderno e stabile.
In questa fase, il Qatar fa un ampio ricorso alla diplomazia e agli strumenti di soft power. Ad esempio, Doha si inserisce nei principali negoziati regionali presentandosi come attore super partes e neutrale tra i contendenti. Un ruolo spesso interpretato dall’Arabia Saudita che Doha cerca di imitare allo scopo di mostrarsi impegnata in sforzi multilaterali, così da guadagnarsi la fiducia e il rispetto della comunità internazionale.
Un ultimo fattore chiave è quello mediatico. Ad Hamad bin Khalifa si deve l’intuizione aver creato Al Jazeera, un network che ha l’obiettivo di creare un nuovo modo di raccontare gli eventi nel mondo arabo e in quello musulmano. Presentata come indipendente, in realtà Al Jazeera diventa ben presto uno strumento di eccezionale propagazione per il Qatar, che gli consente di annullare l’handicap delle sue limitate dimensioni geografiche o demografiche per ottenere una visibilità mondiale.
La nuova strategia regionale del Qatar si delinea quindi già negli anni Novanta. Essa si caratterizza per essere fluida, reattiva e capace di adattarsi tempestivamente alle evoluzioni regionali. Inoltre, appare slegata da questioni ideologiche o confessionali, consentendo al regno degli Al Thani di appoggiare di volta in volta attori diversi e spesso in competizione tra loro. Tutto questo ha permesso in pochi anni di aumentare il grado di influenza e di riconoscimento esterno del Qatar, ma ha anche provocato molte inimicizie. Una prima avvisaglia del nervosismo saudita si verifica nel 2002, quando Riyadh ritira il suo ambasciatore nel Qatar fino al 2008 a causa di un servizio di Al Jazeera sulla dissidenza saudita.
Le rivolte arabe del 2011 rappresentano un ulteriore punto di svolta. Doha decide infatti di mettere da parte la precedente linea diplomatica, preferendole un atteggiamento più interventista che la porta ad inserirsi nei vari teatri di instabilità mediorientali. Questo cambio tattico non modifica però l’obiettivo strategico ultimo qatariota, che rimane quello di aumentare il grado di influenza e riconoscimento esterno. Viene anche mantenuto l’approccio fluido e ondivago già menzionato, che porta Doha ad appoggiare attori diversi in contesti diversi: nel teatro libico Doha supporta i ribelli e il suo sostegno finanziario, politico, militare e mediatico è risultato un fattore fondamentale per la capitolazione di Gheddafi. Tramite Al Jazeera, il Qatar si è presentato al mondo come un Paese favorevole alla resistenza e alla caduta dei regimi autocratici regionali. Tuttavia, questa linea è stata misconosciuta nei confronti del Bahrein e dell’Oman, le cui dinastie regnanti sono state sostenute da Doha e dagli altri membri del CCG durante le rivolte del 2011. Ancora diverso il caso siriano, in cui il Qatar ha appoggiato i ribelli in funzione anti-Assad ma ha cercato di muoversi indipendentemente rispetto agli Al Saud e ha finito per legarsi progressivamente alla Turchia.
Dalle rivolte arabe i rapporti tra il Qatar e il CCG sono quindi peggiorati progressivamente, nonostante la decisione di Hamad di cedere il potere al figlio Tamim nel 2013 per allentare la pressione esterna. Una primi crisi è arrivata nel marzo 2014, quando Arabia Saudita, EAU e Bahrein decidono di ritirare i loro ambasciatori dal Qatar accusandolo di non avere implementato le misure previste dal vertice del CCG di Riyadh del 2012, riguardanti il miglioramento della coordinazione strategica tra i Paesi membri. In realtà, la crisi era già iniziata nel 2013 a causa delle posizioni diametralmente opposte riguardo la situazione egiziana. Il golpe militare del 3 luglio 2013 ha destituito il presidente Morsi e ha messo fine all’esperimento governativo della Fratellanza Musulmana in Egitto. Il Qatar ha criticato duramente il golpe e la successiva repressione, offrendo riparo ad alcuni membri della Fratellanza. Il duo saudo-emiratino invece ha riconosciuto e supportato il nuovo corso egiziano e Riyadh nel marzo 2014 ha dichiarato la Fratellanza Musulmana organizzazione terroristica.
Il caso egiziano dimostra come la politica interventista del Qatar abbia posto Doha in aperta concorrenza con gli altri Paesi del Golfo. L’autarchia strategica qatariota impensierisce soprattutto l’Arabia Saudita, vero artefice della crisi del 2017. Il tentativo di proporsi come mediatori regionali, lo spazio dato da Al Jazeera agli oppositori degli Al Saud, i legami con gruppi dell’Islam politico come la Fratellanza Musulmana, l’avvicinamento all’Iran e alla Turchia sono visti da Riyadh come tentativi di sfidare apertamente la sua leadership nel Golfo. La crisi diplomatica del 2017 e il conseguente embargo terrestre, marittimo e aereo imposto dal Quartetto arabo al Qatar avevano, quindi, l’obiettivo di isolare Doha e costringerla a riallinearsi con la politica regionale del CCG.
Tale pressione si è tuttavia rivelata in gran parte inefficace e ha ulteriormente allontanato il Qatar dai Paesi vicini. Doha è riuscita a spezzare l’isolamento politico ed economico rivolgendosi ad altri attori regionali come l’Iran e la Turchia. In particolare, con Ankara si è sviluppata una vera e propria partnership che ha permesso al Qatar di giocare un importante ruolo in Libia e in Siria, così da aumentare la sua influenza nel Nord Africa e nel Levante. Le ambizioni qatariote sono state ulteriormente confermate dall’investimento da 15 milioni di dollari stanziato a favore della Striscia di Gaza e un altro da 500 milioni di dollari in bond libanesi nel tentativo di sostenere l’economia del Libano.
In ambito energetico, Doha è uscita il 1° gennaio 2019 dall’OPEC e ha in seguito annunciato un piano per aumentare entro il 2024 del 43% la propria produzione di gas naturale. Tale incremento gonfierebbe oltremodo le casse della piccola monarchia e le permetterebbe di acquisire una posizione preminente nel mercato energetico mondiale.
Alcuni segnali di riavvicinamento ci sono stati nel 2019, come la presenza del primo ministro qatariota al vertice del CCG tenutosi a Riyadh a dicembre, ma tra le parti permane una certa distanza.
Dati gli importanti risultati ottenuti in questi anni di resistenza, sembra difficile che il Qatar possa riallinearsi completamente agli altri Paesi del Golfo. Tra questi, i sauditi rappresentano senza dubbio l’attore più intransigente. Riyadh è disposta ad un riavvicinamento ma vuole in cambio delle concessioni, senza le quali il suo ruolo di leader regionale, già in fase di declino, rischierebbe di essere ulteriormente compromesso a vantaggio di Iran e Turchia.
Nel breve periodo solo una minaccia comune potrebbe portare ad una normalizzazione dei rapporti. Ad esempio, un’escalation tra USA e Iran potrebbe riportare Qatar e Arabia Saudita sotto lo stesso tetto (statunitense). In assenza di una minaccia condivisa, l’evoluzione più plausibile è la cristallizzazione della situazione di stallo e un riavvicinamento a piccoli passi e nel lungo periodo. Ciò non toglie che Riyadh e Doha dovranno prima o poi fare delle concessioni. Il Qatar potrebbe prendere spunto dagli EAU, che sono riusciti progressivamente ad affiancare i sauditi, svolgendo in alcuni casi azioni parallele e non sempre allineate con quelle di Riyad, come in Yemen. Il Qatar potrebbe puntare su un processo simile, riconoscendo il ruolo del colosso saudita ma contemporaneamente non rinunciando alla sua politica regionale. Riyadh invece dovrà ammettere che la formula tradizionale del CCG a trazione saudita è ormai anacronistica e che il coordinamento tra i vari Paesi necessiti di una riforma dell’organizzazione in senso più inclusivo e paritario. Gli Al Saud, in fase di affanno e con l’impellenza del G20, potrebbero essere disposti a fare delle concessioni in questo senso.
Se invece la situazione di stallo continuasse, tutti i Paesi coinvolti rischierebbero di vedere le loro posizioni intaccate, anche alla luce del nuovo interventismo turco. Ankara punta a esercitare un ruolo egemonico sull’intera regione, e difficilmente vorrà condividere i suoi successi con i rivali sauditi o gli alleati qatarioti.