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NewsAppunti di Geopolitica liberale. RCEP/CPTPP: una storia interessante

Appunti di Geopolitica liberale. RCEP/CPTPP: una storia interessante

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Il prossimo 1°gennaio, RCEP entra in vigore. RCEP ovvero l’Accordo di partnership economica regionale dell’Asia-Pacifico, ‘Regional Comprensive Economic Partnership’. Comprende paesi ed economie molto importanti, con un peso complessivo del 30 per cento sul Pil globale (e sulla popolazione mondiale).

In realtà, il peso capitalistico delle economie RCEP è ancora più rilevante: i calcoli del Pil in termini PPP, a parità di potere d’acquisto, fanno emergere un Pil di alcuni di questi paesi ancora più consistenti; le loro basi manifatturiere sono tra le più importanti del mondo; e lo stesso vale per le loro basi di risparmio e accumulazione. Insomma se si fa una foto, l’area RCEP vale il trenta per cento del mondo (per ora), ma se si fa un film, assai probabilmente vale ancora di più.

Essa ricomprende economie molto diverse fra di loro, ma anche molto complementari e estremamente intrecciate: tre economie altamente manifatturiere, come Cina, Giappone, Corea del sud; i paesi Asean, che stanno crescendo vorticosamente nelle catene del valore produttive; economie esportatrici di materie prime, Indonesia e Australia; economie di servizi,  come Singapore e Giappone. Tutti i segmenti dell’economia capitalistica sono quindi adeguatamente rappresentati. Anche la loro integrazione è molto elevata; l’intesa RCEP che riduce le tariffe e standardizza procedure e regole commerciali finora molto segmentate in una moltitudine di accordi commerciali locali o bilaterali, incrementerà notevolmente integrazione capitalistica e benessere economico e sociale. RCEP varrebbe oltre un punto di crescita del Pil per il Giappone: costituisce cioè un fattore fondamentale per battere la stagnazione permanente che affligge l’economia del Sol levante.

Insomma RCEP è una realtà economica importantissima: la più importanti degli ultimi anni. Ma RCEP non è ‘solo’ economia. La ratifica da parte dei Parlamenti di Australia e Nuova Zelanda, ovvero da parte di due alleati strettissimi degli Stati Uniti nella SEATO (un tempo), di Five Eyes, di ANZUS (oggi) , è molto significativa delle reale politica globale anche di questi due paesi anglosassoni ovvero della cd ‘Anglosfera’.

In effetti RCEP è economia ovviamente ma è specialmente ‘geo-economia politica’. L’accordo è un passaggio storico fondamentale per capire il mondo del 21° secolo, oltre la geo-strategia delle politiche di potenza. 

Esso fa emergere sia l’effettivo approccio geopolitico di larga parte dei paesi dell’Asia e del Pacifico, sia le contraddizioni potenzialmente esplosive degli Stati Uniti. L’integrazione nell’RCEP di Cina, assieme a Giappone, Corea del sud, paesi Asean, Australia e Nuova Zelanda, infatti fa emergere con nettezza la ‘grande strategia’ di questi paesi: integrarsi nel mondo dell’Asia, anzi della ‘Grande East Asia’ a forte presenza cinese, riuscendo a ‘bilanciarne’ influenza e peso globale. Qui c’è uno snodo politico ed intellettuale chiave: i paesi dell’Asia orientale e del Pacifico, o meglio le democrazie pluraliste dell’Asia nord e sudorientale e del Pacifico non intendono ‘contenere-fermare-spingere indietro’ la Cina come vogliono gli epigoni dell’ideologie neocon in salsa asiatica e come tendono a fare gli Stati Uniti nella loro azione globale concreta (lo slogan neocon ‘Fermare Pechino’, tanto per capirci!!). Le democrazie pluraliste dell’Asia orientale e del Pacifico vogliono integrarsi e integrare la Cina, ‘bilanciandone’ influenza e peso. Con l’RCEP, per il primo fronte; con il CPTPP, ‘Comprensive and progressive TransPacific Partnership’, l’Accordo transpacifico che prevede regole, istituzioni e vincoli a favore dell’economia di mercato molto forti, per il secondo fronte.

Attenzione: come abbiamo annotato prima, l’economia oggi è direttamente ‘geo-economia politica’. Per tante ragioni: i nuovi trattati economici prevedono non solo riduzioni di tariffe (come fa anche RCEP: il ministro del commercio cinese ha annunciato l’intenzione di Pechino di ridurre le tariffe da subito, dal 1 gennaio, dimostrando come la Cina sia ‘sensibile’ al tema delle interdipendenze economiche, con ciò dando materia di riflessione a livello geopolitico…). Questi trattati economici e commerciali di nuova generazione creano procedure, regole e istituzioni, istanze e vincoli politici e giuridiche che creano diritto e politica, quindi ’fanno sistema’. Sistema politico e di governo globale. L’economia è in questi campi direttamente politica, anzi geopolitica. O meglio, essa è uno degli ambiti chiave della geopolitica post-classica e post-imperiale.

Dunque RCEP e CPTPP: come si ricorderà, nei giorni scorsi, in perfetta coincidenza con la nascita di ‘AUKUS’, l’intesa nucleare Australia-Regno Unito-Stati Uniti, la Cina ha chiesto l’adesione al CPTPP. Immediatamente dopo anche Taiwan ha iniziato il processo di adesione all’accordo transpacifico, dando al tutto un fortissimo significato geopolitico anzi di ‘cambio di paradigma e di regime’ geopolitico.

Per capirlo passiamo un passo indietro. Il CPTPP nasce come TPP, L’accordo di Partshership transpacifico. Era fortemente voluto dagli Stati Uniti di Barack Obama e dal Giappone di Shinzo Abe. Tokio da un lato stava negoziando il TPP con gli Stati Uniti e un insieme importanti di paesi dell’Asia, del Pacifico e dell’America latina e non (Messico, Colombia, Cile e Canada); dall’altro lato stava negoziando un’altro trattato, RCEP, con i paesi Asean, con quelli dell’Asia nordorientale e la Cina. Tokio, sotto lo ‘shogunato’ liberaldemocratico (conservatore) di Abe voleva proseguire i processi di integrazione asiatici con la Cina ma in una condizione di sicurezza economica e politica, mediante un ancora più intenso processo di integrazione economica e politica con le democrazie del Pacifico, asiatico ed americano. Questo approccio di ‘bilanciamento’ e di integrazione attiva verso Pechino emerse con forza anche nei comportamenti simbolici di Tokio e del suo primo ministro verso Pechino e personalmente verso Xi Jinping.

Gli Stati Uniti volevano mettere in piedi il TPP come base economica di un sistema di alleanze strategiche ed economiche che consentisse loro di ‘contenere’ l’influenza cinese: in una mano c’era il TPP, nell’altra mano il QUAD, il ’Dialogo’ di sicurezza e difesa quadrangolare Usa-Giappone-Australia-India. Da una parte c’era l’intesa economica, dall’altra parte quella strategica e di sicurezza. Nell’ottica americana i due lati si dovevano tenere, in una visione di sostanziale ’contenimento’ del peso cinese. Anche in quel modo, l’approccio americano sembrava piuttosto opinabile poichè l’integrazione economica dell’Asia con la Cina era irreversibile e quindi l’idea stessa di contenimento classico risultata anti-storica. Non solo: in realtà già allora c’era una sottile contraddizione fra Giappone e Usa, fra Abe e Obama che pur tuttavia poteva proficuamente coesistere anche grazie alla forte capacità di dialogo, di mediazione, di leadership dello ‘shogun’ nipponico e dell’intera leadership politico-burocratica di Tokio. 

Ma il fatto veramente serio venne fuori con la crisi della presidenza obamiana: gli Stati Uniti avevano, già da allora, fortissime ‘difficoltà’ nel ‘sostenere’ a livello di sistema politico nazionale le politiche di apertura economica globale e di transizione ecologica. E difatti proprio il voto degli stati della ‘cintura grigia’ fu decisivo per la vittoria elettorale di Donald Trump (e per la disfatta della candidata pro-TPP Hillary Clinton). Non è un caso che il primo atto esecutivo di politica internazionale del presidente Trump fu la firma per l’uscita degli Usa dal TPP (le uscite Usa dal TPP e dall’accordo di Parigi furono gli architrave dell’approccio trumpiano). Ed ora Joe Biden non riesce ad avere un sostegno per una eventuale nuova adesione americana. Ciò mostra precisamente la crisi del sistema politico reale (ovvero dei partiti ma non solo) degli Stati Uniti anche nel rapporto con il mondo globale.

Come possono essere affidabili gli Stati Uniti se firmano un trattato dell’importanza del TPP e poi ne escono dopo pochi anni? Il fatto è che le classi medie e lavoratrici americane sono sempre meno favorevoli alla apertura economica e commerciale. Ma ciò leva agli Stati Uniti lo strumento cardine della loro azione globale: ciò avviene precisamente quando l’economia, diventando ‘geo-economia politica’ e d anche con la crescita delle istituzioni sovrane e della forza politica delle Banche centali,, costituisce la forza geopolitica più rilevante (assieme alla cultura, o ‘geo-cultura’…).

Insomma la ratifica dell’RCEP da parte di Canberra e Wellington e la sua entrata formale in vigore dal 1 gennaio prossimo, significa una cosa ben precisa. Per comprenderlo meglio fqcciamo un paragone decisamente ardito: sarebbe come se nel dopo seconda guerra mondiale, i paesi dell’Europa occidentale da un lato avessero aderito alla NATO e dall’altro lato avessero aderito al COMECON! Sarebbe stato ovviamente del tutto impossibile, eppure oggi accade che le democrazie dell’Asia orientale e del Pacifico da un lato aderiscono all’RCEP e dall’altro lato, alcune di esse, aderiscono al QUAD o a AUKUS. Non solo: oggigiorno, come abbiamo spesso cercato di evidenziare, l’economia è direttamente geopolitica: oggi i fattori propulsivi della geopolitica sono quelli economici-istituzionali (e quelli geo-culturali). Insomma non solamente c’è una, evidentissima, contraddizione nell’azione geopolitica americana (fra lato strategico e lato economico) ma addirittura oggi il fronte economico, quello di gran lunga più rilevante, vede Cina e democrazie pluraliste industriali dell’EastAsia come forze propulsive; mentre gli Usa sono come un attore con la testa rivolta al passato. Insomma se ieri NATO e Piano Marshall potevano essere due livelli al più collegati, oggi RCEP (o il CPTPP) sono i livelli ampiamente sovra-.ordinati.

In questo quadro di evoluzione globale, la condizione del sistema politico americano, avversario dei trattati economici e del libero commercio globale, diventa un fattore di sistema estremamente dannoso. Oltretutto la fortissima polarizzazione sociale e politica (‘iper-polarizzazione’) degli Stati Uniti impedisce una evoluzione positiva di quel sistema politico. Le notizie di questi giorni sulla disfatta democratica nelle recentissime elezioni parziali, i sondaggi che vedono Trump e Biden alla pari nel voto popolare (e quindi The Donald trionfante nel voto dei grandi elettori), le riforme elettorali in alcuni stati ‘rossi’ che tendono a sfavorire il voto delle minoranze, parlano di un sistema politico americano che non solo non riesca ad uscire dalle contraddizioni ma che le aggrava e le avvita sempre di più.

In questa condizione, è molto difficile che gli Stati Uniti possano svolgere una politica globale efficace ed adeguata alla realtà del mondo globalizzato: in questo contesto, appare molto probabile che gli approcci di ‘multiplo contenimento’ anti-cinese (anti-russo e anti-iraniano) non siano altro che un disperato uso di risorse politiche di stile schmittiano, (‘amico/nemico’), per cercare di bypassare quelle contraddizioni. Un uso che però blocca di fatto l’innovazione politica indispensabile.

Ma che cosa rischia di accadere infatti, con questa sostanziale marginalizzazione degli Stati Uniti dal fronte centrale della geopolitica capitalistica di oggi? C’è la possibilità che l’Asia alla fine si organizzi ‘da sola’. Senza un ruolo forte degli Stati Uniti (e dell’’Occidente’). Guardiamo le cose con un po’ di ‘disincanto’ intellettuale e senza i paraocchi delle ideologie neocons. La Cina da un lato ha costruito l’asse dell’EurAsia, con la Russia,  ma anche con Iran, Pakistan, Turchia. E’ un asse ed uno spazio geopolitico che presenta forti convergenze e una discreta capacità di regolare i pur consistenti conflitti di interessi ivi esistenti; e che trova ora una sua implementazione storica nel dossier afgano. E’ un asse geopolitico ma anche uno spazio geo-economico, fondato sulla Via della seta cinese (e l’affine programma russo dell’Unione euroasiatica) e sull’integrazione energetica. l’EurAsia è dunque un asse ed uno spazio geopolitico-geoeconomico molto importante, portatore di una modernizzazione capitalistica diversa da quelle occidentali.

Ma dall’altro lato, la Cina sta costruendo anche un asse e spazio ‘est-asiatico’, un asse ed uno spazio in primissimo luogo geo-economico, fondato cioè su RCEP e CPTPP. Ma esso ha anche importanti dimensioni geopolitico-strategiche. Con il doppio e parallelo processo di adesione di Cina e di Taiwan a CPTPP, Tokio ovvero la capitale più importante dell’accordo economico transpacifico, diventa ‘l’arbitro dell’adesione’ precisamente il medesimo ruolo che a loro tempo ebbero gli Stati Uniti con l’adesione parallela di Cina e Taiwan al WTO. E questo costituisce in primo luogo un dossier geopolitico e strategico di importanza eccezionale.

Ma il Giappone allo stesso tempo deve cercare di risolvere un dossier di controversie marittime con la Russia, quello delle Kurili del sud, attualmente russe ma rivendicate da Tokio. E deve vedersela costantemente con il dossier nord-koreano. Kurili del sud e NordKorea sono altri due dossier relativi alla dimensione strategica di valore non secondario, come è facile immaginare.

La faccenda diventa intrigante. Con la richiesta di adesione al CPTPP, la Cina si è messa in un percorso che implicherà profonde riforme nazionali di aperture economiche con pesanti risvolti istituzionali. Il CPTPP infatti implica una revisione dei sussidi e degli aiuti alle imprese di stato. E questo fondamentalmente è l’elemento chiave dell’accordo. Perchè Pechino ha deciso di mettersi in un percorso delicatissimo dal suo punto di vista? La revisione del ruolo delle imprese di stato in Cina infatti significa una revisione profonda anche delle strutture del potere e del ruolo del Partito stato. Non è una cosa da poco. Perchè la Cina si è messa in un sentiero potenzialmente così scosceso per il Partito stato? Certamente c’è un fattore tattico, ovvero contrastare l’eventuale adesione di Taiwan, ma questo fattore non basta a spiegare la scelta di Pechino. Alla fin fine, Pechino poteva essere ampiamente soddisfatta della ratifica dell’RCEP.

Il fatto è che la Cina è estremamente integrata a livello economico e commerciale. Non è una nazione ‘isolata’ o ‘isolabile’. Piuttosto è una potente economia esportatrice: se i paesi con cui ha intensi legami economici, Giappone, Corea, Asean, iniziano a coordinarsi sul fronte economico, Pechino deve reagire. E lo può fare aprendosi ancora di più a sua volta. Ovvero: la geo-economia è una potentissima forza geopolitica che può potentemente condizionare Pechino. Detto per inciso questo è stato precisamente l’obbiettivo di Shinzo Abe con il TPP originario. Il coordinamento ‘geo-economico’ civile delle democrazie pluraliste industriali dell’Asia orientale e del Pacifico costituisce quindi un fattore geopolitico importantissimo per condizionare positivamente Pechino ma nel quadro della sua integrazione globale. 

Morale: il Giappone ‘arbitro dell’adesione’ nel CPTPP significa una potenziale nuova capacità di organizzazione dell’Asia in termini di economia di mercato non secondaria, se questo ruolo viene giocato in coordinamento con le altre democrazie est-asiatiche e del Pacifico. A questa potenziale capacità di organizzazione dell’Asia in termini di geo-economia bisogna poi aggiungere, come abbiamo accennato prima, quella in termini di geopolitica: ovvero, in primissimo luogo, il dossier koreano. La Corea può fungere da fattore di spinta per negoziati di cooperazione e di sicurezza regionale, negoziati che vedrebbero Cina, Giappone, Corea del sud come grandi protagonisti. Mentre Giappone e Russia sono al tavolo del dossier Kurili.

A questo punto possiamo iniziare a tirare le somme. Il ‘bilanciamento’ sofisticato del Giappone non è ‘solo’ fra l’interesse economico con la Cina, e quello di sicurezza con l’alleanza strategica con gli Usa: è una faccenda molto più complessa. Il Giappone allo stesso tempo va verso l’integrazione economica con la Cina, e cerca condizioni di maggiore sicurezza economica in questi processi con gli accordi transpacifici e con l’Unione europea (JEFTA) e con l’autonomia tecnologica (l’istituzione recentissima del Ministero per la sicurezza economica); dall’altro lato, consolida per quanto possibile l’alleanza con gli Usa (ma cerca anche di dotarsi di capacità di difesa indipendenti) e punta anche il negoziato con la Cina per i dossier come quello koreano, e con la Russia. Come si vede siamo di fronte ad un bilanciamento molto più sofisticato, (di impronta merkeliana).

Non solo: fra processi di adesione al CPTPP, ratifiche RCEP, dossier koreno e dossier Kurili, il Giappone si ritrova al centro, con la Cina e con la Corea, di un potenziale reticolo di ri-organizzazione geo-economica in primo luogo e in secondo luogo geopolitico-strategica dell’Asia. Il ruolo e il peso di Tokio diventa rilevante se ci sono forme di coordinamento adeguato fra le democrazie della regione. 

Mettiamo le cose in fila. Abbiamo da un lato l’asse Cina+Russia con lo spazio di EurAsia, dall’altro lato abbiamo il ruolo di Cina+Giappone+Corea nel grande spazio dell’EastAsia. Fra EurAsia e EastAsia alla cinese e alla nipponica si noterà prima o poi un ruolo alquanto indebolito degli Stati Uniti. 

A questo punto possiamo quasi definire una ‘legge’ politica: più Washington insiste negli approcci di ‘contenimento’ anti-cinese in questo contesto, più rischia di fatto di dare il baricentro della geopolitica dell’Asia-Pacifico e del mondo globalizzato ad uno stranissimo, anomalo (e impossibile) QUAD: Cina+Russia (il cuore dell’EurAsia) con Giappone e Corea del sud (le due più importanti democrazie pluraliste industriali dell’EastAsia!!). 

Esiste una via alternativa? Quella delle intese economiche e istituzionali per condizionare la Cina, con il raccordo delle grandi democrazie pluraliste industriali manifatturiere a livello globale: Pechino può essere efficacemente condizionata dalle democrazie pluraliste industriali. Mi spiego. Le democrazie manifatturiere devono agire cooperativamente e devono agire in una logica di ‘bilanciamento’, (non di contenimento), di ‘integrazione’ (non di guerra geopolitica o ‘concorrenza estrema’); e devono essere politicamente capaci di sfruttare le chances dell’apertura economica (non agire in modo opposto) per allargare i processi capitalistici e per favorire le integrazioni politiche. Gli Stati Uniti non sembrano in condizione nè di poter sostenere dinamiche di apertura economica e geo-economica nè di poter accettare approcci (merkeliani) di ‘bilanciamento’ geopolitico. Ma in tal caso, altri attori globali, Eurasia e le relazioni fra le grandi economie dell’EastAsia, Cina, Giappone, Corea, potrebbero prenderne il posto. 

Come ci siamo chiesti prima: esiste una via alternativa? Forse c’è un ruolo importante dell’Europa e per la sua geopolitica liberale!. L’UE infatti come attore economico globale è un ‘centro’ capitalistico di tutto rispetto, ben più importante dello stesso Giappone. L’UE ha firmato recentemente un accordo economico proprio con il Sol levante, il JEFTA: e potrebbe in teoria aderire con rapidità al CPTPP. A quel punto l’ex TPP di Obama diventerebbe il cuore dei processi capitalistici di larga parte del mondo: assieme all’Europa, alla Cina (e a Taiwan), il CPTPP diventerebbe un ‘Super-CPTPP’ ovvero un grande spazio economico-politico multilaterale con istituzioni di mercato consolidate di oltre il 50 per cento del Pil globale. Con una adesione europea al CPTPP rapida e prioritaria, UE e Giappone (ancora più economicamente e geo-economicamente integrati) potrebbero fortemente coordinare le proprie azioni geo-economiche allo scopo di condizionare ulteriormente Pechino in chiave di ‘economia di mercato’, anzi in chiave di ‘economia sociale di mercato’. Il CAI, il Trattato di investimenti UE-Cina, avrebbe a quel punto una possibilità di essere fatto uscire dal congelatore, con richiami più precisi alle convenzioni internazionali per i diritti dei lavoratori, (…se UE e Giappone si coordinassero….).

Insomma, se le democrazie dell’EastAsia possono condizionare Pechino come dimostra la vicenda CPTPP, le democrazie est-asiatiche più l’UE potrebbero fortemente condizionare Pechino. In questo discorso che però un fattore critico: Washington. Gli Usa non sembrano che si siano troppo esposti contro questi accordi economici asiatici. Il punto è semplice: se l’UE entrasse nella Grande Partita geo-economica del Pacifico, quale sarebbe il comportamento reale di Washington nei suoi confronti? 

Non conosciamo la risposta. Una cosa appare evidente: se gli Stati Uniti non riescono più a ‘sostenere’ a livello di sistema politico capitalistico nazionale, processi di apertura economica (come sta accadendo a causa della crisi ‘organica’ ) e se l’UE non avrà la capacità e l’abilità verso Washington di portare avanti una strategia (merkeliana o ‘neo-merkeliana’), allora, come abbiamo annotato prima, l’EastAsia (e l’EurAsia…) potrebbero trovare le loro autonome vie. Senza le democrazie occidentali tra i piedi: o meglio continuando a recitare il mantra retorico del G7 e della ‘lega delle democrazie’ e quant’altro (la ‘foto di gruppo anti-cinese’!!) ma nei fatti, come mostra la vicenda RCEP, andando avanti per conto loro. Le vie della infinita sottigliezza della diplomazia in stile asiatico e confuciano sono tantissime!

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