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2022, l’anno “zero” del presente e futuro dello Spazio europeo. Intervista a Simonetta Di Pippo.

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Arrivati ormai alle battute finali di questo non-facile 2022, è tempo di primi bilanci. Il 22 e 23 novembre, a Parigi, si è svolto l’attesissimo Consiglio Ministeriale dell’ESA, dal quale molte erano le risposte attese in quello che -senza troppe riserve – può essere definito l’«annus horribilis» per lo Spazio europeo. L’interruzione dei rapporti di collaborazione con la russa ROSCOSMOS a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina ha privato improvvisamente l’Europa della disponibilità dei vettori russi Soyuz, più che dimezzando le sue capacità di accesso allo spazio esterno, e costringendo a Terra diversi programmi spaziali previsti al lancio proprio nel 2022. Un anno quindi caratterizzato da forti mutamenti internazionali che hanno fatto riaffiorare -in maniera anche prorompente- le mai sanate debolezze (alias dipendenze) del comparto spaziale europeo, ulteriormente accentuate da una sempre più pallida identità di sé.

Dott.ssa Di Pippo, innanzi tutto grazie per la sua disponibilità. Prima di addentrarci nei dettagli, una prima domanda introduttiva: conviene investire nello spazio?

Questa domanda può avere una sola risposta: certamente. E potrei anche io porre la domanda: ci sono dubbi in proposito? Oggi la Space economy ha un valore stimato di 470 miliardi di dollari (fonte Space Foundation) ed è destinata a diventare una economia da milioni di miliardi entro il 2040. Noi diventeremo sempre di più una società spaziale, e lo spazio sarà sempre con noi, ovunque, in settori che vanno dalla salute all’educazione, dalla gestione dei disastri naturali al monitoraggio del clima, dall’agricoltura alla green economy, passando per una trasformazione digitale che è anch’essa sempre più spaziale. Per chi vuole risposte più ampie e dettagliate a queste domande, la vostra e la mia, consiglio di leggere Space Economy: la nuova frontiera dello sviluppo, edito da Bocconi University Press e in libreria dallo scorso 16 settembre.

Elevandoci dal puro aspetto economico, perché è così importante sviluppare “capacità spaziali”?

Lo spazio ha indubbiamente una valenza strategica e una economica, ma anche sociale. Una strategia che bilanci questi aspetti è una strategia vincente. Si tratta da un lato di sviluppare tecnologie di frontiera, di produrre innovazione, di incoraggiare sempre più studenti verso le materie STEM, di facilitare in altre parole un processo di sviluppo economico che sia anche sostenibile. Alcune scelte possono avere una valenza più economica, altre più strategica di posizionamento del paese in un contesto geopolitico internazionale. Noi avevamo una base di lancio già funzionante quando si muovevano i primi passi nel settore spaziale, ed eravamo un paese all’avanguardia. Oggi abbiamo competenze su tutta la catena del valore che pochi altri possono vantare. E come sempre, si fanno investimenti pubblici, strategici, che poi portano a sviluppare tecnologie che diventano mature e che consentono un approccio più commerciale.  Lo spazio è tutto strategico, anche come laboratorio di pace. Speriamo.

Passando ora ai fatti recenti di Parigi, come starà l’Europa dello Spazio dopo il recente CM22 di Parigi?

Rafforzata, solida, con sfide importanti davanti ad essa. Occorre adesso forte coesione, competenza, aumento del numero di addetti, preparazione di un piano strategico a lungo termine, che premi l’interoperabilità piuttosto che la dipendenza. In questo contesto, mi riferisco ad esempio alla missione ExoMars, che era prevista al lancio quest’anno ma è stata rimandata di ben 6 anni a causa degli impatti del conflitto in Ucraina. Le sottoscrizioni che consentono di portarla a termine assorbono però una bella fetta di finanziamenti che avrebbero potuto essere usati per sviluppare altre tecnologie e allo stesso tempo l’ESA avrebbe dimostrato di poter atterrare su un diverso corpo del sistema solare. L’ha fatto con Huygens, su Titano, e con Philae, sulla cometa Churyumov-Gerasimenko, ma guardando ad una esplorazione sistematica di Luna e Marte, ExoMars avrebbe rafforzato la credibilità internazionale dell’Europa che pure è altissima.

Il CM22 di Parigi è riuscito (anche solo in parte) a dare le risposte di cui lo spazio europeo ha oggi più che mai bisogno?

Il CM22 ha dato molte risposte, come quasi sempre accade ai Consigli ESA a livello ministeriale. Certamente, ha mostrato la volontà degli Stati membri di lavorare su programmi strategici che consentono da un lato il rafforzamento delle infrastrutture spaziali critiche dell’Europa come quelle relative alla navigazione, all’indipendenza strategica nel settore delle telecomunicazioni e scambio dati (civile e militare), nell’altrettanto strategico settore dell’osservazione della Terra ed in quello dello sviluppo di competitive ed estese capacità di accesso allo spazio esterno, in altre parole i lanciatori Vega-C ed Ariane-6. Dall’altro lato, si permette il rilancio del comparto industriale e scientifico europeo su questi temi di punta, senza trascurare -ed anzi puntellandolo bene- l’ambito relativo ai servizi e applicazioni, e iniettando processi di accelerazione nel cercare di creare valore (supporto alla green economy, smart cities, connettività globale etc). Per capire se le risposte sono parziali occorrerà vedere come queste intenzioni strategiche verranno tradotte e in quanto tempo, perché, questo ormai è acclarato, occorre essere veloci e concreti in un settore in così forte espansione a livello globale.

La New Space Economy ha stravolto il “modo di fare spazio”. Assistiamo alla continua nascita di attori privati, principalmente nella fornitura di “servizi di lancio”. Una crescita esponenziale che innalza fortemente il livello di competitività e quindi di tecnologia. Anche in Europa oggi -sempre più chiaramente- osserviamo una crescente volontà di diverse realtà private di voler “fare spazio”. In che modo l’Europa sta affrontando questo mutamento epocale?

Innanzitutto, non direi che gli attori privati si stanno affermando solo nella fornitura dei sistemi di lancio. L’Osservazione della Terra, per esempio, è un settore in forte espansione anche grazie a sviluppi e finanziamenti privati, e sempre di più vedremo attenzione su base commerciale per stazioni spaziali private in orbita bassa o per insediamenti lunari commerciali, mentre qualcuno parla già di una città su Marte. L’ecosistema europeo sta tentando un recupero, anche se ci sarebbe bisogno di una fluidificazione nei processi e nei meccanismi di finanziamento, e una diversa propensione al rischio. Questo è uno dei temi che stiamo affrontando, tra gli altri, allo Space Economy Evolution Lab (SEELab) di SDA Bocconi che dirigo dal marzo scorso. E lo affrontiamo da diversi angoli. Ad esempio, stiamo organizzando assieme allo Space Policy Institute della George Washington University e la Secure World Foundation un workshop dal titolo: Space Exploration investments: Turning Uncertainty into Measurable Risk and Benefits a Febbraio 2023 a Washington, con lo scopo di valutare e misurare il rischio associato agli investimenti in ambito spaziale, incentrato sulla necessità di definire meglio possibili opzioni per gli investitori fornendo loro gli strumenti per una maggiore comprensione delle incertezze che sono intrinseche in un progetto spaziale, soprattutto se legato allo sviluppo di tecnologie particolarmente innovative. Il perno centrale sarà proprio delineare le differenze tra sistema americano e sistema europeo, al fine di derivare eventuali suggerimenti su come accelerare un approccio più incisivo nel vecchio continente.

Come funziona quindi oggi il “settore privato” spaziale in Europa? Funziona?

Comincia a muoversi. Il sito dell’ESA riporta che il totale degli investimenti a livello globale nel 2021 è stato pari a 12.2 Miliardi di euro, con una percentuale di crescita dell’86% nel periodo 2017 – 2021. Nello stesso periodo, l’Europa è cresciuta del 14%, con un 5% nel solo 2021. Quindi, si, comincia a muoversi, ma ancora lentamente.

Spesso, l’approccio proposto sembra essere sempre quello di “copiare” ed implementare il modello statunitense di New Space Economy. Può questo modello essere adattato al contesto Europeo? oppure -viste le enormi differenze socioculturali rispetto agli USA- l’Europa dovrebbe trovare una strada tutta sua?

Investire nello spazio su idee innovative non è come investire in altri settori. Inoltre, i tempi di realizzazione di un progetto spaziale sono abbastanza lunghi, nonostante si siano di molto accorciati rispetto al passato. Occorre incentivare le aziende a mettersi in gioco dal punto di vista commerciale, in modo da innescare un processo che si autoalimenti. Prendiamo ad esempio il solito Elon Musk, ed osserviamo lo sviluppo della capsula “Dragon”. Per questo progetto Space-X ha ricevuto dalla NASA (il cosiddetto “ancor customer”) un primo contratto che copriva parte dei costi di sviluppo ed un secondo contratto per 12 missioni operative quando il sistema fosse stato pronto. Con questi contratti, forte di un ancor customer alle sue spalle, Space-X è così potuta andare sul mercato e trovare i fondi necessari. In Europa, questo non lo abbiamo (ancora) visto accadere, pur avendo registrato qualche tentativo sporadico. Siamo comunque abbastanza lontani da avere una situazione analoga, e non sempre i modelli che funzionano in altri Paesi si possono applicare tout court al nostro continente. L’affermarsi di nuovi modelli al cambiare delle condizioni al contorno è comunque un problema che si presenta in Europa in diversi settori, dove si stenta ad innovare nei processi. Occorre snellire le procedure, avere un atteggiamento lungimirante e mantenere la competenza al centro.

Dott.ssa Di Pippo, secondo lei, il settore privato è destinato ad assorbire in maniera crescente tutte le attività̀ spaziali o ci sono “domini” che resteranno sempre e ad esclusivo appannaggio delle agenzie statali (governative)?

Ci sono aree di intervento che sono e rimangano strategiche. Ciò non significa che non si possa trovare un interessante angolo commerciale anche in quei settori nei quali si investe perché strategico per il paese, ma è un di cui. Le agenzie spaziali potrebbero evolvere come significato e come ruolo, a mano a mano che le tecnologie diventano sempre più fruibili, e diventare sempre di più strumenti strategici. Se guardiamo ad una espansione della specie umana su altri pianeti, questa sarà una avventura globale, coordinata, non di un singolo paese e quindi federare gli sforzi sotto un unico ombrello, una agenzia globale, potrebbe non essere più fantascienza. Ci sono ‘domini’ che rimangono strategici se pensiamo ad un uso non pacifico dello spazio, anche se tutti speriamo che l’esplorazione possa risultare una valida piattaforma per fare esercizi di schemi sociali pacifici, in modo inclusivo.

Arriviamo al nostro Paese. L’Italia ha dimostrato e dimostra di essere un importante attore nel settore spaziale europeo. Nell’ultimo Consiglio Ministeriale svoltosi a Parigi, il nostro Paese si è (ri)confermato terzo contributore con poco meno di 3.1 miliardi di euro, a poca distanza da Francia e Germania, con quest’ultima che si è anche ripresa (a sorpresa?) la leadership dei finanziamenti in seno all’Agenzia Spaziale Europea. Tramite diretto contratto di assistenza con ESA, ha investito ben 1.3 miliardi di euro nella costellazione di EO chiamata IRIDE. Ha concluso anche un buon posizionamento sul progetto Moonlight. Abbiamo finalmente deciso cosa fare da grandi?

L’Italia si è riconfermato il terzo contributore e il primo se consideriamo solo i programmi opzionali. Un traguardo non da poco. Nei prossimi anni, se sommiamo il PNRR, il Piano Triennale dell’ASI e la sottoscrizione alla ministeriale ESA, si immetteranno nel sistema industriale nazionale circa 7.2 miliardi di euro. IRIDE è la costellazione che fornirà servizi agli attori istituzionali nazionali, e dovendo essere realizzata in così poco tempo, non potrà innovare molto dal punto di vista delle tecnologie imbarcate. Se giocata bene, come sono sicura accadrà, la partita non è di poco conto, perché consentirebbe all’Italia di controllare l’intera filiera: dal lancio alla gestione e analisi dati, sino al loro utilizzo. Una politica dei dati aperta sarebbe anche auspicabile, perché questo aprirebbe la strada ad una moltiplicazione virtuosa delle attività commerciali collegate. Sul Moonlight, trovo che sia una buonissima idea, anche se anticipatoria. L’investimento pubblico dovrà aiutare le aziende a trovare la loro strada, ma se l’Italia riuscisse, come si dice, a “mettere cappello”, sarebbe un settore ad alto potenziale di ritorno economico. Sul posizionamento strategico, direi che non ci sono dubbi. Sul valore commerciale, sia per IRIDE che per Moonlight, nemmeno.

Questa Ministeriale ci premia? oppure, ancora una volta, abbiamo pagato un prezzo troppo alto rispetto a quanto abbiamo deciso di investire?

Lo potremo dire tra qualche tempo. Ora spetta all’ESA mettere in atto tutte le azioni necessarie a rendere onore a chi ha investito nei suoi programmi, attraverso le normali procedure dell’Agenzia. I primi segnali arriveranno presto.

Rispetto a Germania e Francia, gli investimenti italiani risultano in linea?

Ora dedichiamoci a formare gli esperti del futuro, anche prossimo. Senza talenti in numero adeguato non possiamo vincere la sfida. L’immissione di finanziamenti deve andare di pari passo con una crescita strutturata del settore, e le nostre aziende debbono essere messe in condizioni di operare in questo ambiente dinamico, molto competitivo ma allo stesso tempo collaborativo. Quando fu dell’era Apollo, gli USA videro un incremento elevato di dottorati di ricerca in materie STEM dal 1962, anno del discorso di JFK alla Rice University, quello del famoso” we choose to go to the moon’, sino al 1972, anno dell’ultima missione Apollo, per poi assistere ad un inesorabile declino. Gli investimenti italiani consentiranno la crescita del settore e sperabilmente un interesse crescente dei giovani verso questo tipo di educazione. Questi stessi investimenti ci proiettano tra le principali potenze spaziali al mondo, che è poi il posto che ci spetta.  

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