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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaUn anno dopo le proteste: il dissenso si evolve...

Un anno dopo le proteste: il dissenso si evolve in un Iran già mutato

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Ad un anno dall’inizio della rivolta “Women, Life, Freedom”, prosegue l’instancabile braccio di ferro tra le forze di sicurezza iraniane e i manifestanti. Nel corso dei mesi, i massicci cortei e i grandi gesti di ribellione che avevano sconvolto inizialmente il Paese hanno lasciato spazio ad atti di disobbedienza civile più localizzati e ridotti, ma egualmente capaci di incidere sulla resistenza collettiva. Mentre le autorità nazionali hanno portato avanti una repressione via via più violenta e punitiva, le persone si sono impossessate di spazi inattesi per esprimere il proprio malcontento, dimostrando un desiderio inarrestabile di libertà che minaccia sempre più seriamente la tenuta delle istituzioni teocratiche. Nelle ultime settimane la Repubblica islamica si è ampiamente adoperata per prevenire l’esplosione di nuovi disordini su larga scala nel giorno dell’anniversario della morte di Mahsa Amini, ma il ricordo delle morti e dei soprusi subiti negli anni ha spinto donne e uomini a non abbassare la voce, preannunciando quella di oggi, come una giornata di forti tensioni.

Un anno rivoluzionario

Esattamente un anno fa aveva inizio l’ondata di proteste che ha trascinato la Repubblica islamica in uno dei periodi più turbolenti dalla sua istituzione. I primi disordini sono scoppiati sotto l’ospedale dove ha perso la vita Mahsa Jina Amini: la ragazza curda 22enne, arrestata per aver indossato il velo in maniera inadeguata, e deceduta tre giorni dopo, a causa delle violenze subite da parte della polizia morale. Non era la prima volta che una donna iraniana subiva i soprusi e le violenze del sistema di controllo statale; eppure, il tragico epilogo di questo episodio ha innescato una serie di sommovimenti che si sono riprodotti in tutto il Paese.

L’Iran non è un luogo estraneo ai grandi movimenti, per quanto non sempre e non tutti abbiano goduto di una tale copertura mediatica. Ciò che però ha portato alcunə a considerare questa come la più grande sollevazione contro il potere che l’Iran abbia conosciuto dal tempo della Rivoluzione islamica del 1979, è l’estensione geografica e sociale della partecipazione. A differenza degli anni precedenti, infatti, il Paese sembra essersi mobilitato nella sua interezza, intrecciando rivendicazioni di carattere femminista con istanze antirazziste, affiancando critiche politiche contro il regime a richieste di giustizia sociale. Durante i primi mesi la caduta delle istituzioni sembrava terribilmente vicina: gli uomini partecipavano alle manifestazioni insieme alle donne, i giovani erano in prima linea al fianco delle generazioni che avevano conosciuto la rivoluzione e la guerra. Al suono di Jîn, Jihan, Azadì– “Donna, vita, libertà” – la società civile iraniana ha rivendicato i diritti delle minoranze perseguitate; criticato l’inflazione galoppante, la corruzione e la mala gestione del governo; esatto la fine della teocrazia e preteso che il corpo delle donne tornasse ad essere una questione di scelta individuale anziché un campo di battaglia politica e ideologica. In questo modo, la rivolta femminista si è rivelata un punto di accelerazione e dimostrazione dell’esistenza di altre crisi: quella economica, peggiorata dal duro sistema di sanzioni messo in atto dai paesi occidentali, e quella legata alla gestione delle periferie e delle minoranze etniche.

In un certo senso, si potrebbe affermare che nel corso dell’ultimo anno, l’Iran abbia subito una rivolta intersezionale: poiché le rivendicazioni di chi vive nel margine, nella subordinarietà, nell’ombra di un privilegio a cui non può accedere, si sono unite e sono esplose dopo decenni di oppressione.

Il governo non è rimasto a guardare: ai cortei di massa e alle oceaniche manifestazioni è seguita una repressione violenta e via via più punitiva,  che ha costretto le voci della protesta a fare un passo indietro, o quantomeno a reinventare i propri repertori d’azione. Gruppi per i diritti umani hanno affermato che oltre 500 persone, tra cui 71 minorenni, sono state uccise, centinaia ferite e 20.000 arrestate. 7 giovanissimi sono stati giustiziati, sollevando sdegno al livello internazionale e aumentando il timore al livello interno. La polizia morale, abolita pochi mesi dopo l’inizio delle proteste, è stata ripristinata nel mese di luglio come “contromisura contro la negligenza dell’hijab”. In questo momento di fisiologica remissione dei sommovimenti, i grandi gesti di ribellione sono stati sostituiti da atti di disobbedienza civile: più localizzati e ridotti, ma egualmente visibili e intelligibili nello spazio pubblico. La protesta si è spostata nel quotidiano, nel locale, laddove si tende a non guardare quando si osserva il mutamento politico di un Paese, ma ha mantenuto quella dimensione di partecipazione collettiva, che continua a farsi sentire attraverso metodi e spazi alternativi.

I nuovi spazi della protesta parlano di una trasformazione già avvenuta

Nel mese di luglio la popolazione iraniana ha celebrato il rito religioso Ashura: una delle cerimonie religiose sciite più importanti per il Paese. La commemorazione di quest’anno ha avuto però un tono differente: diversi canti di protesta sono stati intonati in alcune città conservatrici; numerosi video hanno mostrato i e le manifestanti sollevare le foto delle persone rimaste uccise nel corso delle proteste; sono state persino viste alcune donne partecipare alle cerimonie senza velo. Emerge chiaramente la distanza di azione tra le autorità iraniane e le forze che ad esse si oppongono: laddove il regime impone i propri divieti e ricorre a misure vessatorie, le manifestazioni di dissenso si insinuano in spazi precedentemente silenziosi, dando voce alle proteste in modi inattesi. I cartelloni pubblicitari dello Stato vengono deturpati per le strade, gli slogan a favore delle proteste appaiono dappertutto: sui muri degli edifici, nella metropolitana. “Il governo continua a spazzarli via, ma gli slogan continuano a tornare” dichiara una ragazza iraniana. Allo stesso modo, le donne continuano ad eludere le restrizioni morali e religiose ridefinendo i propri confini di partecipazione in maniera ogni giorno nuova. Si mostrano nello spazio pubblico senza velo; si confondono nei luoghi segregati; indossano abiti “occidentali”; rispondono a tono alle forze di sicurezza; prendono la parola e raccontano, testimoniano sui social la violenza delle autorità nei propri confronti, contribuendo così a costruire una rete di supporto, o quantomeno di consapevolezza, internazionale.

Le voci dei ragazzi e soprattutto delle ragazze iraniane rivelano un’incredula audacia, che sembra radicarsi sempre di più nella fiducia che la trasformazione sociale e culturale a cui auspicano, sia in parte già stata raggiunta. Nelle famiglie, negli spazi pubblici, per le strade vengono ormai normalizzati gesti e atti che, pur mantenendo una dimensione provocatoria e antisistema, non erano mai stati così diffusi e così frequenti. La docente Paola Rivetti sottolinea come la Repubblica islamica si trovi ora di fronte alla possibilità di accompagnare questa trasformazione già avvenuta, dimostrando una certa flessibilità e capacità di ascolto della propria società. Tuttavia, come dimostrano i provvedimenti più recenti, è prevalsa la volontà di contrastare questi cambiamenti e continuare sulla strada della repressione politica, culturale e sociale.

La repressione preventiva: le Nazioni Unite parlano di apartheid di genere

Per scongiurare disordini su larga scala nel giorno dell’anniversario della morte di Mahsa Amini, le autorità nazionali hanno effettuato un’altra ondata di arresti. Tra le persone rinchiuse ci sono civili, attiviste per i diritti delle donne, oppositorə politicə, intellettuali, artistə, cantanti, studentə e giornalistə. Ad agosto, il presidente del consiglio di amministrazione della Gilda dei giornalisti di Teheran ha dichiarato che più di cento reporter e giornalisti sono stati arrestati: tra di loro si contano anche Negin Bagheri ed Elanaz Mohammadi, le due giornaliste che per prime hanno denunciato la morte di Mahsa Amini. Le testimonianze di chi si trova in prigione hanno riportato un aumento delle violenze fisiche contro le donne nelle ultime settimane; mentre nel mondo accademico, almeno 15 docenti sono stati espulsi dai propri posti di lavoro perché sostenevano la rivolta. Questa repressione preventiva si è scagliata persino contro le famiglie delle persone che hanno perso la vita nel corso delle proteste. Amnesty International ha documentato 22 casi di molestie da parte del governo nei confronti dei parenti delle vittime delle manifestazioni. L’ultimo di questi episodi è avvenuto il 6 settembre nella città di Saqqez, dove è stato arrestato Safa Aeli, lo zio di Mahsa Amini.

Il regime ha scelto dunque l’intimidazione come strategia preventiva, partendo dalla zona del Kurdistan iraniano: quella che fin dall’inizio si è distinta come l’area più viva delle proteste e più difficile da tenere sotto controllo. Oltre agli arresti e ai pattugliamenti della polizia morale, negli ultimi giorni sono state dispiegate forze armate e militari nelle città curde di Saqqez, Marivan, Bukan e Sanandaj. Da giovedì l’atmosfera è diventata altamente securitizzata e, secondo i cittadini, un agente è d’istanza in ogni strada e veicoli antisommossa ed elicotteri del Corpo delle Guardie della Rivoluzione (IRCG) stanno sorvolando l’area.

La repressione sta silenziosamente passando anche attraverso i canali ufficiali del parlamento. A maggio è stato proposto un disegno di legge in 70 articoli che prevede un inasprimento delle condanne per le donne che si rifiutano di indossare il velo. Se oggi trasgredire la legge sull’hijab obbligatorio comporta un rischio di condanna da 10 mesi a 2 anni di carcere, con l’adozione della “Legge sull’hijab e sulla castità” la pena sale ad un periodo compreso tra i 5 e 10 anni di reclusione. La durata sarebbe così paragonabile a quella prevista per reati gravi come l’omicidio e il traffico di droga. Un gruppo di esperti nominati dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso la sua grave preoccupazione per questo progetto, affermando che potrebbe “essere descritto come una  forma di apartheid di genere poiché le autorità sembrano governare attraverso una discriminazione sistematica con l’intenzione di sopprimere donne e ragazze fino alla sottomissione totale”.

I provvedimenti per scoraggiare un rinnovato attivismo della società iraniana si estendono dunque in ogni campo della vita pubblica e privata della popolazione, ma i prossimi mesi vedranno l’anniversario di almeno 500 morti e 7 esecuzioni che rinnoveranno il dolore e il trauma vissuto nell’ultimo anno, portando con sé un forte potenziale trasformativo. Il padre di Mahsa Amini dal suo account ha diffuso un messaggio per invitare a riunirsi sulla tomba di Mahsa nella giornata di oggi, sfidando apertamente il divieto imposto dalle autorità e preannunciando possibili disordini.

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