L’invasione russa dell’Ucraina ha spinto la Turchia in una posizione diplomaticamente e strategicamente scomoda, sollevando nuovi dubbi sulle fedeltà anatoliche al campo atlantico. L’ambigua posizione della Turchia davanti all’attacco russo è principalmente motivata dalle relazioni costruite nel corso degli anni con entrambe la parti in conflitto: se Ankara vede nella Federazione Russa il suo principale fornitore di gas naturale e un socio commerciale chiave, negli anni l’Ucraina si è prefigurata come l’indispensabile argine alle pressioni russe oltre che un inatteso partner economico e difensivo.
Allo scoppio della guerra, la Turchia si è dunque trovata nella scomoda posizione di essere schiacciata tra interessi antitetici a livello diplomatico ed economico in una guerra in cui non legge nessun diretto tornaconto. Al contempo, l’appartenenza alla NATO, contrapposte alle sempre più evidenti affinità nelle leadership di Putin ed Erdogan, non fanno altro che rivestire la condizione turca di ancor più precarietà e ambiguità.
I legami commerciali tra Federazione Russa e Turchia hanno assistito a una crescita esponenziale negli ultimi decenni: Mosca è diventata il terzo partner economico di Ankara, a seguito di Germania e Cina, con un volume di interscambio commerciale di $34.7 miliardi. Le relazioni economiche tra i due paesi non si fermano qui: con circa 4 milioni e mezzo di visitatori, i turisti russi sono stati primi per presenze sulle spiagge turche – circa 1/5 del totale – per circa $25 miliardi di incassi solo nel 2021. Ma il cardine delle relazioni russo-turche si trova nella questione energetica: la Russia rappresenta il primo fornitore di gas naturale per la Turchia, ricoprendo circa il 33% del fabbisogno turco. Nonostante la politica di Ankara di diversificazione energetica, l’apporto di gas russo tramite i due gasdotti sottomarini nel Mar Nero costituisce l’arteria vitale per le esigenze energetiche turche.
Contemporaneamente, i rapporti tra Turchia e Russia sono stati rinforzati anche grazie ad un’affinità di leadership tra Putin ed Erdogan, uomini di stampo autocratico che mal si sposano con gli ideali democratici promossi dall’Occidente. Il graduale allontanamento dalle sfere occidentali si è riconfermato anche in ambito militare: solo tre anni fa, la Turchia è stata espulsa dal programma NATO di sviluppo degli F-35 a seguito dell’acquisto da parte di Ankara di sistemi S-400 russi. La recente distanza turca dall’Occidente si esplicita anche attraverso la necessità di raggiungere una propria autonomia strategica nel vicino Mediterraneo, Medioriente e Africa, ed il rinnovato bisogno di divenire una potenza regionale si è tradotto in una politica estera più assertiva, sotto gli occhi diffidenti di Mosca. La coppia Mosca / Ankara ha infatti da anni trovato la radice dei suoi problemi proprio in politica estera: le posizioni antitetiche in contesti come il conflitto nel Nagorno-Karabakh e nelle guerre civili siriana e libica hanno provocato tensioni non indifferenti, come quando nel novembre 2015, due F-16 turchi hanno abbattuto un jet russo nel Nord della Siria, portando a un’interruzione nelle relazioni diplomatiche dei due paesi.
È proprio questa la radice del rinnovato interesse per Kyiv da parte di Ankara: la posizione geografica dell’Ucraina, fisicamente oltre che geopoliticamente tra Turchia e Russia, crea una comoda buffer zone per le azioni turche. Oltre a non aver riconosciuto l’annessione della Crimea nel 2014, la Turchia ha supportato la difesa ucraina con le proprie tecnologie per almeno un decennio: già dal 2014, sono diverse le società turche che hanno giocato un ruolo importante nell’ammodernamento dell’esercito ucraino. Basti pensare ai droni turchi Bayraktar che sono stati utilizzati dai militari ucraini nell’ottobre 2021 per la difesa del Donbass con l’irritazione dei comandi a Mosca. Certamente l’apporto militare a Kyiv risponde anche alle imposizioni della NATO, ma non solo: la sopravvivenza dell’Ucraina come entità completamente separata dalla Russia, argine dell’ingombrante influenza di Mosca, risulta fondamentale per la riuscita dei programmi turchi nel Mediterraneo e Medioriente. La (semi)indipendenza della Turchia in ambito regionale è vincolata dalla ridotta presenza russa, vera potenza globale e non solo regionale.
L’ambiguità turca, dettata da interessi contrapposti verso le due fazioni rivali, è proseguita con lo scoppio della guerra: Ankara si è rifiutata di adottare sanzioni contro la Russia, anche motivata dall’opposizione storica allo strumento delle sanzioni, e oltre che presentarsi come un rifugio sicuro per gli yacht di lusso degli oligarchi russi “finché rispetteranno il diritto internazionale”, la Turchia ha anche mantenuto i voli diretti da e per la Russia in previsione della stagione estiva e dell’arrivo dei numerosi turisti russi. Contemporaneamente però, l’adesione della Turchia alla NATO e tutti i benefici che ne derivano comportano il naturale sostegno allo sforzo bellico ucraino. In sostanza, la chiave di lettura del comportamento turco sta essenzialmente nella salvaguardia dei propri interessi nazionali, bilanciando interessi e partner diversi in un delicato gioco di scambi: è proprio per questo che la Turchia si è appellata alla Convenzione di Montreux del 1936 che regola il passaggio dagli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli, e ha chiuso gli Stretti alle navi da guerra, sia russe che ucraine.
Per cercare di tornare allo status quo antecedente l’offensiva russa, Ankara si è lanciata nella diplomazia: la Turchia si è profilata come intermediaria tra Kyiv e Mosca, in virtù dei buoni rapporti intrattenuti con entrambe. Il 29 marzo, la Turchia è riuscita nel suo intento e ha portato le delegazioni ucraine e russe allo stesso tavolo: nonostante l’incontro di Istanbul si fosse prefissato come il raggiungimento di un compromesso tra le parti, non ne è stato raggiunto alcuno. Il fallimento della via diplomatica ha quindi riportato Ankara al punto di partenza, acrobata in bilico tra complessi rapporti con Mosca, le aspirazioni egemoniche mediorientali e il vincolo atlantico.