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TematicheCina e Indo-PacificoAncora elezioni per Israele, ancora un referendum su Netanyahu

Ancora elezioni per Israele, ancora un referendum su Netanyahu

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Dopo neanche due mesi da elezioni che gli avevano consegnato una delle vittorie migliori di sempre, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non è riuscito a mettere insieme una maggioranza di governo. Il 17 settembre gli israeliani torneranno a votare per eleggere i 120 membri della Knesset. Per Netanyahu è una disfatta, del tutto imprevista, quasi umiliante. Nella storia di Israele non era mai successo che un primo ministro incaricato non riuscisse a rispettare la scadenza dei termini per formare una colazione. Cosa cambia rispetto alle elezioni di poche settimane fa?

La strada era spianata, Netanyahu aveva vinto la scommessa di andare a elezioni anticipate e poteva tornare al governo mettendo insieme la solita coalizione tra destra e i partiti religiosi, e affrontare da una posizione di forza con cui affrontare i tre processi che lo pendono su di lui. All’improvviso però, Avigdor Lieberman, leader del partito di estrema destra Yisrael Beiteinu, ha deciso di mettergli i bastoni tra le ruote. Tra i due i dissapori non erano mai mancati neanche in passato, ma nessuno si aspettava che Lieberman sarebbe arrivato allo scontro frontale su un tema tanto sensibile come la fine dell’esenzione dal servizio militare obbligatorio per gli ebrei ultraortodossi.

Yisrael Beiteinu è un partito con una linea dura nei confronti dei palestinesi e posizioni anti-clericali nei confronti degli ultraortodossi. La base del partito è composta da ebrei russi secolarizzati, immigrati in Israele dagli anni ’90 dopo il crollo dell’Unione Sovietica e spesso considerati dal rabbinato ultraortodosso non ebrei (per lo più perché figli di madre non ebrea). Quella degli ebrei russi contestati nella loro “ebraicità” è una delle tante sfaccettature della complessa società israeliana, qui ci basti sapere che Lieberman è da più di 10 anni che cerca di indebolire il potere politico degli ultraortodossi, in particolare con un disegno di legge che costringere i membri della comunità a essere arruolati e prestare servizio nell’esercito come tutti gli altri ebrei israeliani. Un privilegio mal sopportato dall’opinione pubblica, visto che gli israeliani comuni dall’età di 18 anni sono costretti a un servizio militare obbligatorio che dura tre anni per gli uomini (due per le donne), e prosegue per decenni sotto forma di servizio permanente effettivo come riservisti.

L’argomento dei benefici e dell’influenza sulla società riservata agli ultraortodossi è molto sentito — anche Netanyahu ha promesso di cambiare le cose — ma i partiti religiosi (in particolare lo Shas) riescono regolarmente ad andare al governo e bloccare questa come altre riforme. Stavolta però Lieberman ha rifiutato il solito compromesso, e negando a Bibi i suoi cinque parlamentari ha mandato a monte la possibilità di formare la coalizione. Secondo alcuni, la mossa di Lieberman è la vendetta personale di un politico che (come altri però) è diventato acerrimo nemico di Netanyahu dopo aver iniziato la sua carriera politica proprio con lui nel Likud, ma a prescindere dalla vera motivazione il risultato non cambia: Israele tornerà alle urne il 17 settembre, e la feroce campagna elettorale terminata appena sette settimane fa è pronta a ricominciare.

Considerando che gli israeliani hanno appena votato, il risultato delle elezioni di settembre non dovrebbe essere molto diverso da quello di aprile, ma ci sono alcuni fattori di cui bisogna tener conto.

 

  1. Nelle elezioniultime elezioniil nuovo partito di Naftali Bennet e Ayelet Shaked, HaYamin HeHadash (nuova destra), non è riuscito a superare la soglia di sbarramento. La nuova piattaforma di Bennet (ministro dell’Istruzione) e Shaked (ministro della Giustizia) propone un messaggio non tanto diverso da quello del Likud, cosa faranno? La carismatica Shaked (lei) è corteggiata da tutti i partiti di destra compreso il Likud, al contrario di Bennett che con Netanyahu è ai ferri corti da molto tempo (come Lieberman del resto). Queste sono tutte liti e competizioni interne alla grande famiglia della destra israeliana, ma possono essere determinanti vista la severa soglia di sbarramento del 3,25% e il ridotto numero di seggi di cui è composta la Knesset. Per “incentivare” una loro decisione, Netanyahu li ha licenziati dalla carica di ministro che ancora ricoprivano nel governo rimasto in carica.

 

  1. Nel sistema politicopuramenteproporzionale di Israele accade spesso che parlamentari influenti escano da un partito grande per formarne uno più piccolo: è il caso di Lieberman, di Bennet e di Shaked, ma anche del partito di centro-destra Kulanu di Moshe Kahlon, costola centrista del Likud. Dopo le ultime elezioni Kulanu si è riunito con il Likud, ora la speranza è che i quattro deputati conquistati da Kulanu ad aprile si sommino ai 35 del Likud consegnando a Netanyahu ben 39 deputati con cui non dover scendere a compromessi di coalizione. Il problema di queste manovre però è che spesso le addizioni sulla carta non trovano riscontro nelle urne. Se l’elettorato centrista dovesse abbandonare Kulanu in favore del partito centrista Kahol Lavan — che punta proprio a loro — Netanyahu si troverebbe con un segmento elettorale non coperto. Dinamiche simili le vediamo anche a sinistra, il partito Laburista sta valutando la fusione con l’estrema sinistra di Meretz o con i centristi di Kahol Lavan.

 

  1. In quello che è noto come lo Stato degli ebrei, più del 20% della popolazione non è ebrea, spesso israelianiloro malgrado. Sonogli arabi israeliani, rappresentati da partiti identitari molto diversi l’uno dall’altro. Alle elezioni del 2015 gli arabi si presentarono con una lista che riuniva i quattro principali partiti di riferimento, una mossa che permise loro evitare le solite esclusioni causate dalla soglia di sbarramento ed eleggere ben 13 parlamentari. Quest’anno però non sono riusciti a mettersi d’accordo per replicare l’esperienza, si sono divisi e solo due partiti su quattro sono riusciti a entrare nuovamente alla Knesset, perdendo tre seggi. Questa probabilmente è la ragione per cui gli arabi hanno votato per sciogliere la camera: rimettere insieme la Lista Unita e aumentare la rappresentanza parlamentare. Se riusciranno a replicare il successo del 2015 gli spazi per formare una coalizione diventeranno più stretti per chiunque vinca le elezioni, uno dei postulati della politica israeliana infatti è che non ci si allea con i partiti degli arabi.
  2. Come abbiamo visto, il tema dei privilegi riservati agli ultraortodossi è molto sensibile. Oltre all’esenzione della coscrizione obbligatoria, l’opinione pubblica israeliana non sopporta l’eccessiva influenza dei religiosi nella vita laica e i sussidi che ricevono in cambio dell’impegno a dedicare la propria vita allo studio della Torah. La mossa di Lieberman ha dimostrato che il tema può dominare l’agenda della campagna elettorale, ma rinunciare all’appoggio dei partiti religiosi, che non hanno problemi a superare la soglia di sbarramentoe  adaprile hanno conquistato 16 seggi, significa rivoluzionare completamente la logica con cui formare una coalizione. Gli israeliani sono sempre meno tolleranti nei confronti delle concessioni fatte agli ultraortodossi, un malcontento trasversale che va da destra a sinistra. Se gli avversari di Bibi riusciranno a incentrare la campagna elettorale su questi temi, Netanyahu sarà costretto a cambiare il messaggio ed entrare in conflitto con i suoi alleati.

 

  1. Netanyahu piace alla Casa Bianca,il presidente DonaldTrump ha dato a Netanyahu cose mai viste prima in Israele: l’aumento esagerato degli aiuti militari, l’affossamento dell’accordo sul nucleare iraniano, il trasferimento dell’Ambasciata USA a Gerusalemme, il riconoscimento delle alture del Golan e un appoggio politico, tattico e strategico a tutto campo che sta rendendo Israele più forte e spregiudicato che mai. Durante le ultime lezioni Trump ha praticamente fatto campagna elettorale per Netanyahu, e aveva pianificato tutto in maniera da presentare il suo controverso piano di pace per il Medio Oriente insieme al “nuovo” governo israeliano. La conferenza del 25–26 giugno prevista in Bahrain ha già suscitato polemiche e defezioni illustri (la Russia su tutti) per via della natura molto sbilanciata a favore di Israele, ma l’assenza di un governo israeliano nel pieno delle sue funzioni rende la conferenza praticamente inutile. Detta in altre parole, il fallimento di Netanyahu ha mandato a monte i piani di Trump. Anche questo potrebbe avere effetti sulla campagna elettorale, gli israeliani si chiederanno se Bibi è ancora l’uomo più affidabile per tenere viva la relazione con l’alleato vitale.

Le ultime elezioni sono state un vero e proprio referendum su Netanyahu, una campagna elettorale incentrata sul fatto che molti elettori — compresi quelli di destra — rifiutassero la figura soverchiante del leader del Likud, sempre più al centro delle polemiche per via dell’atteggiamento prepotente e degli scandali giudiziari. La forza su cui si basa il successo di Bibi è la capacità di presentarsi, nonostante tutto, come l’uomo indispensabile di Israele, in grado di migliorare le relazioni diplomatiche dello Stato ebraico oltre ogni previsione, di rendere sicuro il Paese e far funzionare l’economia, al contrario di opposizioni sfilacciate, litigiose e incapaci di proporre un’alternativa.

 

I fatti delle ultime settimane però hanno dimostrato che anche Bibi può essere incapace, il leader indispensabile non è riuscito a formare una coalizione con gli alleati di sempre, e da qui a settembre continueranno a emergere dettagli imbarazzanti sui casi di corruzione che lo riguardano. Le nuove elezioni impediscono a Netanyahu di far approvare in tempi brevi una legge che gli consenta l’immunità per i tre capi di accusa (frodi e corruzione) nei suoi confronti. Quindi, se la campagna elettorale dovesse segnare una rottura tale da rendere impossibile un’alleanza con i partiti religiosi, o se i casi giudiziari dovessero costringere Netanyahu a fare un passo indietro, potrebbe farsi strada la possibilità di formare una grande coalizione centrista tra Likud e Kahol Lavan. Tuttavia, anche se è vero che mai nessun politico era mai inciampato in una disfatta del genere prima di lui, le possibilità che possa uscirne più forte sono tante come quelle in cui potrebbe uscirne sconfitto: Bibi resta il favorito.

 

È lecito aspettarsi che per indurre l’opinione pubblica a non cercare soluzioni alternative Netanyahu cercherà di scaldare i dossier che riguardano la sicurezza. Durante il primo weekend di giugno ci sono stati dei raid israeliani in Siria dopo che alcuni razzi siriani lanciati nelle alture del Golan, e scontri a Gerusalemme per via del permesso di pregare sulla Spianata delle Moschee dato ad alcuni ebrei ultraortodossi proprio nell’anniversario della presa della città orientale durante la guerra del 1967. Un paio di giorni prima invece, sempre a Gerusalemme, due ebrei erano stati accoltellati da un palestinese della Cisgiordania. Di sicuro da qui a settembre non mancherà un’escalation dei toni contro l’Iran. Per tutto il resto, vale ancora l’analisi precedente pubblicata dopo le elezioni, soprattutto per capire come mai la risoluzione del conflitto israelo-palestinese non riveste più un ruolo centrale neanche durante la campagna elettorale, e perché i politici israeliani non si fanno problemi a consumarsi in una feroce competizione interna mentre intorno a loro il Medio Oriente brucia. Il resto lo vedremo il 18 settembre, la decisione spetta agli israeliani, ma sicuramente avremo modo di tornare a parlarne prima di quella data.

 

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