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Anatomia di un rapimento: come nasce questo business e qual è la strategia italiana

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Silvia Romano è stata liberata: la giovane cooperante, rapita il 20 novembre del 2018 in Kenya, nel villaggio di Chakama, da una banda armata che ha assaltato la sede dell’organizzazione dove lavorava

Sin dalle prime settimane le autorità keniote si sono sempre dimostrate ottimiste nel recupero della giovane, tanto da leggere in diversi articoli tra novembre e dicembre del 2018 virgolettati che parlavano di una imminente liberazione. Quel che è accaduto, invece, è uno dei più classici scenari post rapimento, come vedremo in seguito, e quello che i servizi di sicurezza tentano di evitare in tutti i modi possibili, per diverse ragioni: il passaggio dell’ostaggio, dal gruppo criminale (spesso di piccola dimensione o rilevanza) a una milizia strutturata e ben più “famosa”. In questa vicenda il passaggio è avvenuto immediatamente, stando alle prime ricostruzioni, segnale che è direttamente la milizia legata ad al-Shabaab ad aver coordinato il rapimento. Dopo esser stata presa da un commando di uomini armati, di nazionalità keniota e somala, Silvia Romano è stata subito ceduta a un gruppo di tre somali, legati alla milizia jihadista. Da qui il lungo viaggio durato 4 settimane, devastante dal punto fisico in base a quanto raccontato durante il primo interrogatorio (“non smettevo di piangere […] avevo la febbre altissima”), che attraverso la foresta l’ha portata in Somalia, centro nevralgico dell’attività dei “Giovani” somali, dal 2015 ritirati in zone rurali e boschive del paese. 

Il salvataggio

L’azione dei servizi di sicurezza italiani si è svolta di concerto con quelli somali, inizialmente richiedendo l’aiuto di quelli emiratini, ma è grazie al ruolo centrale dei turchi che si è riusciti a sbrogliare la matassa delle fonti e dei contatti giusti per impostare la trattativa. E mentre dal Kenya le autorità ripetevano di essere vicine alla cattura nei primi mesi, Silvia a Natale aveva già oltrepassato il confine, entrando nel territorio degli al-Shabaab, aree dove la Turchia ha una crescente influenza, e dove Ankara si è ritagliata negli anni un peso specifico non indifferente. L’Italia, non appena ricevuta la notizia del passaggio in Somalia e del rapimento per mano di una milizia jihadista di primo piano, ha immediatamente chiesto prove della buona salute della giovane Silvia, che infatti racconta di aver girato “almeno tre video”. Nelle ultime settimane l’accelerata, percepita dalla stessa Silvia, che ha confidato che i suoi carcerieri (due gruppi formati da 3 uomini, uno solo in grado di comunicare con lei in inglese) le avevano detto della possibile svolta, fino ad arrivare alla notte di venerdì, quando è stata portata fuori dalla foresta, a 30 km da Mogadiscio, e consegnata a funzionari dell’AISE. 

Tralasciando la mera cronaca del rapimento e del rientro, di cui la rassegna odierna è ben fornita, proviamo ad analizzare alcuni dei punti maggiormente critici su cui si è articolato il dibattito nelle scorse ore.

Il rapimento

La tratta di esseri umani, spesso occidentali, rapiti e riconsegnati dietro pagamento, è uno dei principali business delle organizzazioni criminali e jihadiste che operano all’interno dei territori privi di sovranità, o a sovranità limitata. Dal Sahara al Siraq, passando per il Corno d’Africa e arrivando in Afghanistan, da circa 20 anni questa attività si è dimostrata una delle più redditizie, per una serie di fattori che a breve andremo a descrivere. 
In breve: post 11 settembre, alcune conseguenze a livello economico e strategico, impossibili da approfondire in poche righe, hanno convinto diverse organizzazioni criminali e jihadiste (in certe zone del mondo le due sfere sono perfettamente sovrapponibili) nel Sahara a dedicarsi a questo nuovo business, quello del rapimento di occidentali. “Maestra” nel campo è stata certamente Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), grazie alle particolari doti di uno dei suoi principali comandanti, Belmokhtar, conosciuto anche come “Mr Marlboro” per il passato da contrabbandiere. Alla lunga lista di operazioni di economia criminale che le organizzazioni jihadiste mettono in campo per il proprio sostentamento, AQMI inserì quella dei rapimenti di turisti occidentali, con grande successo: nei primi 10 anni di attività, si stima che l’organizzazione abbia incassato quasi 200 milioni di dollari in riscatti. 

Tale livello di redditività ha convinto il brand centrale di al-Qaeda a esportare questo modello di business in tutti i territori sotto il proprio controllo. Le modalità operative sono piuttosto simili, e si sono riscontrate anche nell’esperienza raccontata da Silvia Romano. Qualcuno segnala a gruppi criminali (o direttamente a organizzazioni jihadiste più strutturate, anche in base al grado di profondità dell’influenza dell’organizzazione in una tale area) la presenza di un occidentale sprovvisto di adeguate protezioni: un bersaglio facile. Da quel momento si mettono in moto una serie di azioni, svolte da una vera e propria filiera criminale strutturata a livello piramidale: la bassa manovalanza che rapisce e sorveglia inizialmente l’ostaggio, esperti della geografia del luogo che trasportano l’ostaggio in vari luoghi per rendere meno facile l’inseguimento delle tracce, negoziatori che cedono il rapito all’organizzazione di riferimento per le operazioni criminali nell’area, e in seguito alti gradi della milizia in grado di trattare, direttamente o meno, con chi rivuole indietro la persona rapita. 

Reddito per tutti

Per molti porzioni di territorio, soprattutto quelle in cui la sovranità dello stato è pressoché inesistente, questa tipologia di business è molto in voga, per la semplicità con la quale è possibile nascondere l’ostaggio: da una parte grazie alla mancanza di forze di polizia in grado di controllare il territorio, dall’altra per il generale sentimento di omertà della popolazione riguardo questa tipologia di criminalità, perché delle ricadute economiche dell’operazione ne beneficiano un po’ tutti. Dalla lunghissima filiera di persone che si occupano dell’affare, alla spesa dei soldi del riscatto sul territorio che fornisce sostentamento a piccole attività locali, tutto è studiato per rendere appetibile un tale business. A chi materialmente individua e rapisce l’obiettivo vengono lasciate le briciole dei guadagni, per far sì che sia sempre costretto a mettersi sulle tracce di nuovi papabili obiettivi. Come riporta un negoziatore intervistato da Loretta Napoleoni in “Mercanti di uomini” (Rizzoli), in molte regioni del mondo il rapimento è considerato un meccanismo che re-distribuisce la ricchezza dall’Occidente alle zone povere del pianeta. 

Il caso somalo

La Somalia è uno stato fallito, oramai da quasi 30 anni. Base di diverse organizzazioni criminali e jihadiste che hanno stabilito nel paese uno stato nello stato, controllando importanti porzioni di territorio e gestendo una vera e propria economia parallela. Perno di queste organizzazioni ci sono gli al-Shabaab, nati nel 2006 dopo la disgregazione dell’Unione delle Corti Islamiche a seguito della sconfitta da parte del Governo federale di transizione somalo. 
Essendo uno stato estremamente pericoloso, e quindi estremamente povero di presenza turistica occidentale, le organizzazioni del paese hanno spostato l’attenzione sui possibili target nella vicina e ben più attrattiva Kenya. Nel 2011 una coppia di inglesi, Judith e David Tebbutt, in vacanza in un resort in un’isola del nord del Kenya, sono state le prime due vittime della stagione dei rapimenti somali in territorio keniota. L’uomo ucciso all’istante, la donna rapita e rilasciata sei mesi dopo dietro pagamento di riscatto (1.1 milioni di dollari) da parte della famiglia. Gli al-Shabaab inaugurano così il nuovo business, evolvendo quello già noto della pirateria. Come i miliziani di AQMI sfruttano le conoscenze delle invisibili tratte interne al Sahara per la tratta degli ostaggi, così i “giovani” somali sfruttano l’esperienza della pirateria, l’uso dei barchini e effettuano svariate irruzioni in territorio keniota. Le attività di monitoraggio, e di prelievo, come nel caso di Silvia Romano, sono effettuate da piccoli gruppi di locali, alcune volte misti a uomini somali. 
Il rapimento della giovane italiana conferma il trend delle azioni degli al-Shabaab, che dopo un breve arretramento, hanno nuovamente allargato il loro raggio d’azione. Dai racconti della Romanol’operazione è stata orchestrata direttamente dai somali, in grado di penetrare in profondità nel Kenya. Questo ci costringe ad ascrivere anche quel paese, spesso rimasto nell’immaginario dell’Occidente come luogo sicuro per vacanze e volontariato, come territorio non sicuro, e agire di conseguenza, mettendo in sicurezza chi lavora nelle organizzazioni, a tutela di tutto il sistema paese. 

Il riscatto

Ampia polemica sulla questione riscatto. Partiamo da un presupposto, anche banale, ma essenziale. Un ostaggio ha tre destini: morire, essere liberato con azione militare, essere riscattato. Altre vie non ce ne sono. Sulla prima non mi soffermo, in quanto è folle solo prendere in considerazione l’idea che uno stato abbandoni un proprio concittadino che è stato forzatamente trattenuto in un determinato luogo. Sulle altre due, vanno distinte due tipologie di paesi: quelli che trattano coi i criminali, e quelli che non lo dicono. Certo, alcune potenze europee, hanno nel proprio modus operandi il pagamento dei riscatti in denaro la via principale, soprattutto Italia, Spagna e Francia, mentre altre, in particolare Stati Uniti e Inghilterra, prediligono trattare utilizzando i prigionieri politici come pedina di scambio, o intervenendo con vere e proprie operazioni dei servizi speciali. L’Italia ha sempre pagato, quando possibile, per riportare a casa i propri connazionali rapiti. Anche solo intavolare la trattativa non è facile, trovare la pista giusta, individuare le persone affidabili per la negoziazione: è facile rischiare di iniziare una trattativa con chi non può garantire la liberazione del rapito, o peggio ancora portare la partita su un piano politico tale da compromettere la salute dell’ostaggio. È piena la letteratura di casi di trattative andate male per una postura erronea della leadership politica: in piena negoziazione con i servizi giapponesi, a seguito del rapimento dei giornalisti Yukawa e Goto da parte dello Stato Islamico, il premier Shinzo Abe effettuò un viaggio in Medio Oriente, promettendo aiuti nella lotta all’Isis. Questo trasformò i due giapponesi rapiti da possibili cambiali di denaro a pedine politiche, portandoli alla morte e consegnando il macabro messaggio di minaccia dello Stato Islamico al governo di Tokyo. 
Su stabilire contatti e seguire il filo del rapimento i nostri servizi di sicurezza interni sono maestri, grazie a una rete di informatori e fonti, in particolare nel mondo mediorientale, costruita nei decenni. Una rete che nel Corno d’Africa ora risulta depotenziata, e che ha comportato il bisogno di appoggiarsi ai turchi, come confermato dallo stesso Conte. 

Il prezzo di una vita

Anche se brutale, ogni vita ha un prezzo: decenni di trattative internazionali lo confermano. Cooperanti, giornalisti, turisti, diplomatici, militari, ogni categoria ha un peso nella trattativa diverso, ma le variabili principali che alterano il costo del riscatto sono altre tre: il passaporto del rapito, il potere dell’organizzazione che ne detiene il possesso, la pubblicità del caso.
Passaporti occidentali, in special modo europei, hanno un gran peso, e alzano notevolmente il prezzo dell’ostaggio. Inoltre il brand di chi architetta il rapimento è una variabile dirimente nella trattativa: maggiore è la struttura dell’organizzazione, maggiore sarà la richiesta, grazie alla capacità di mantenere i costi del rapimento per più tempo, che non obbligano i miliziani a doversi disfare in breve tempo dell’ostaggio. Per questo le operazioni di salvataggio cercano di svilupparsi nel più breve tempo possibile, cioè mentre la persona rapita si trova in mano a gruppi meno organizzati: è più facile da riscattare, e ci sono maggiori possibilità di trattare un prezzo basso. Anche la terza variabile, quella della pubblicità del caso, è importante: maggiore rilevanza mediatica ha il rapito, maggiore sarà la capacità dei miliziani di estorcere denaro. Per questo motivo le autorità si trincerano dietro una necessaria cortina di silenzio assoluto sui casi dei rapiti. 

Riscatto sì, riscatto no

Chiarito che il modus operandi italiano è questo, le accuse rivolte al pagamento del riscatto si muovono su due filoni: da una parte chi sostiene l’immoralità del pagamento nei confronti di terroristi e/o organizzazioni criminali, dall’altra chi ritiene che bisognerebbe prediligere azioni militari. 

Sulla prima obiezione, sicuramente legittima, è bene sottolineare un aspetto rilevante: l’approccio italiano, seguito in decenni di approccio al mondo mediorientale, sintetizzato brutalmente in un “più diplomazia e meno bombe”, è stato il perno della nostra strategia organica di antiterrorismo. Le politiche di prevenzione e contrasto, infatti, non si svolgono solamente sul territorio tramite un controllo capillare degli individui e delle cellule ritenute pericolose, ma è affiancato da una strategia a più ampio respiro, fatta di una postura in politica estera chiara, che ci ha certamente salvaguardato dalle recenti ondate di terrorismo. Chiaramente le cause dei mancati attentati sul territorio italiano non sono riconducibili a un singolo fattore, ma certamente una certa postura in determinate aree e in alcune situazioni, sono da considerare parte integrante di una strategia di difesa e di prevenzione. 

Della seconda obiezione, cioè quella militare, oltre a quanto scritto poc’anzi, ne va evidenziata la pericolosità: i costi sociali di un blitz possono essere ben maggiori dei potenziali benefici. Posta la difficoltà di uno stato come l’Italia, che non può intervenire in ogni singolo scenario per problemi logistici, le operazioni militari di recupero di ostaggi sono molto rischiose: secondo le statistiche, circa un terzo delle stesse finiscono con un fallimento. Guido Olimpio, sul Corriere, ricorda il fallito blitz francese del 2013 che portò alla morte di due operatori delle forze speciali e di un ostaggio. 

La prigionia

Tante accuse rivolte alla cooperante Romano per come ha descritto i carcerieri: ha affermato di essere stata curata, di essere stata trattata tutto sommato bene. Anche questo non è un fatto straordinario: se si rileggono le diverse inchieste postume dei rapiti, o se si leggono i numerosi libri autobiografici pubblicati dai sopravvissuti, non è raro imbattersi in riflessioni di questo tipo. Anche Rossella Urru, la cooperante italiana rapita nel campo profughi Saharawi di Hassi Raduni, nel deserto algerino sud-occidentale, una volta liberata nel 2012, ha confermato agli inquirenti di esser stata trattata bene dai rapitori. Come spiegato in precedenza, la gran parte dei rapimenti ha come scopo quello di incassare soldi, e pragmaticamente i carcerieri possono tendere a salvaguardare la salute dell’ostaggio. Non è sempre così, sono numerosi anche i casi di rapimenti finiti male, specialmente quelli effettuati dallo Stato Islamico tra Siria e Iraq, che ha mandato precisi messaggi all’Occidente uccidendo le persone rapite, e ci sono numerose testimonianze di abusi e torture subite dagli ostaggi. Dalle prime ricostruzioni, però, il rapimento di Silvia Romano sembra a tutti gli effetti uno di quelli collegati alla volontà di incassare soldi, e quindi le affermazioni della giovane sono molto meno sorprendenti di quanto si creda. 

Eccessiva pubblicità

Certamente un fattore anomalo è l’eccessiva pubblicità data al rientro: questo è sicuramente ascrivibile a una volontà politica, non certo ai servizi di sicurezza. Regalare alle organizzazioni che hanno incassato i soldi le immagini del ritorno festante, di una intera nazione che gioisce per il sacrosanto rientro di una sua figlia, offre una sponda pericolosa: sancisce quanto il nostro paese non tolleri l’abbandono di un concittadino, e alimenta quel business di cui abbiamo trattato finora. In diversi paesi le operazioni di recupero sono silenziate ben oltre l’effettivo rientro della persona: gli annunci su Twitter, la folta presenza dei giornalisti, le dirette televisive, sono immagini che arrivano immediatamente in tutto il mondo, anche dove il business dei rapimenti rappresenta una costante. E allora forse qui ci sarebbe da discutere, su quanto l’eccessiva ricerca di una sovraesposizione mediatica, volta a ricercare una coesione nazionale in un momento politicamente delicato come questo, possa essere un boomerang. 
Ma certamente su questo la giovane Romano non ha nessuna colpa.

Lorenzo Zacchi,
Geopolitica.info

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