La potenza simbolica della data del 24 febbraio, consegnata ormai alla storia come quella dell’invasione russa dell’Ucraina, sembra agitare il mondo diplomatico e della sicurezza, con il convergere frenetico di azioni e reazioni verso il punto focale dell’anniversario della guerra. La questione è tutt’altro che metafisica: i simboli hanno un effetto concreto sulla realtà, non fosse altro che per aver spinto il presidente Biden a visitare Kiev e Wang Yi, direttore della commissione Affari esteri del Partito comunista cinese (PCC), ad incontrare Vladimir Putin a Mosca.
Wang Yi, promosso a “capo” della diplomazia cinese con il Congresso del Partito tenutosi lo scorso ottobre, è la star di questo straordinario sommovimento delle leadership internazionali, costrette a fare i conti con il presunto “cigno nero” della guerra in Ucraina. Per quanto, in linea di massima, la Cina abbia tentato di mantenere una posizione distaccata sulla cosiddetta “operazione militare speciale”, è inevitabile che un anno di guerra condizioni e metta alla prova quella “amicizia senza limiti” che, solo venti giorni prima dell’invasione, Cina e Russia annunciavano in un comunicato congiunto “sull’entrata delle relazioni internazionali in una nuova era”.
Un modello “a palle di biliardo” del mondo imporrebbe di dar per scontata l’alleanza di ferro tra Pechino e Mosca, unite dal comune “nemico” statunitense, dando così adito ad interpretazioni letterali di quella strana formula contenuta nel comunicato. Una riflessione più profonda rende evidente una coproduzione di una realtà più complessa in cui diversi livelli di analisi si compenetrano, impedendo previsioni e valutazioni nette sul presente e sul futuro delle relazioni sino-russe
Una Cina più attiva
La recente visita di Wang Yi a Mosca e la presentazione imminente di un piano di pace alternativo a quello di Zelensky opportunamente smussato dai suoi alleati occidentali farebbero pensare che, al netto delle ambiguità degli scorsi mesi, la Cina sia pronta a giocare un ruolo fondamentale per ottenere una risoluzione pacifica del conflitto. Questa deve bilanciare (equilibrismo non da poco) le “legittime preoccupazioni di sicurezza” della Russia e la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina, senza consegnare all’Occidente il timone dei negoziati e preservando il regime dell’amico Putin.
Affermare che la Cina voglia giocare un ruolo più attivo nella risoluzione di un conflitto con conseguenze globali è probabilmente corretto: lo dimostrano le mosse di Wang Yi e il rilancio della Global Security Initiative (GSI) durante la Conferenza sulla sicurezza di Monaco, una visione globale imperniata sul concetto, mutuato dal lessico russo, di “sicurezza indivisibile”. Il bilanciamento tra diritto internazionale e interessi russi, nonostante appaia come una evidente contraddizione, può essere un incentivo alla più attiva partecipazione cinese. D’altronde, mutatis mutandis, lo stesso bilanciamento è ciò che Pechino cerca di realizzare con Taiwan, appellandosi ai principi di sovranità e non interferenza ed etichettando come fonte di instabilità l’approccio statunitense alla questione. Inoltre – la formula “economia socialista di mercato” lo dimostra – per la leadership cinese le ambiguità sono pane quotidiano, complice un approccio culturale, quello confuciano, a proprio agio con i tetralemmi più che con le dicotomie occidentali.
Una di queste, quella tra democrazie e autocrazie sempre presente nei discorsi di Joe Biden, non ultimo quello tenuto in Polonia, accomuna Russia e Cina, una sorta di “asse del male” che, insieme a Iran, Corea del Nord e altri satelliti, costituisce la principale minaccia al mantenimento della libertà del mondo democratico occidentale e “occidentalizzato”. Questa retorica, però, oltre che analiticamente sommaria se si confrontano i sistemi politici russo e cinese, fatica a cogliere tutti quei limiti manifestati dai cinesi stessi nel proprio appoggio alla Russia nella cruenta avventura neocoloniale in Ucraina.
L’amicizia alla prova della guerra
Bisogna accertarsi che la posizione cinese sulla guerra sia dirimente per lo sviluppo delle relazioni bilaterali. Al netto delle previsioni americane sull’imminente invio di armi alla Russia da parte della Cina, finora il sostegno cinese al presunto alleato non è stato sostanziale, anzi la posizione cinese ha oscillato tra una malcelata insofferenza per l’instabilità portata dalla guerra e una neutralità che, in un mondo in bianco e nero, equivale a sostenere l’invasore.
Tra gli aspetti più complicati del rapporto sino-russo figura la questione del nucleare. Pechino mal digerisce, infatti, il continuo riferimento russo al potenziale uso dell’atomica, minacciato più volte dall’ex presidente Medvedev. Già nel comunicato congiunto di febbraio si legge che le parti si impegnano a perseguire lo scopo ultimo del Trattato sulla non proliferazione del 1970, ovvero il disarmo nucleare: alla luce degli sviluppi successivi, è lecito ipotizzare che sia stata la parte cinese, il cui rapporto con l’arma atomica è storicamente ambiguo, a richiedere l’inserimento della sezione nel comunicato. A conferma dell’incompatibilità delle visioni sul nucleare di Cina e Russia, nel readout dell’incontro di novembre tra Xi e il cancelliere tedesco Scholz, la Cina afferma la propria ferma opposizione alla minaccia o all’uso delle armi nucleari, proprio in uno dei momenti di massima preoccupazione per le mosse russe su questo fronte. L’alterità delle posizioni in materia non è un aspetto di poco conto, soprattutto con il futuro del trattato sul controllo degli armamenti tra Russia e Stati Uniti New START in bilico. L’accordo è, infatti, in scadenza nel 2026 e l’assenza di negoziati per il rinnovo è fonte di preoccupazione per tutta la comunità dell’arms control.
Nonostante questo e altri limiti posti dai cinesi all’amicizia che dovrebbe esserne priva, la Russia non ha mai espresso dubbi sull’allineamento della Cina alle proprie posizioni. Esemplare, in tal senso, l’invito a visitare Mosca che Putin ha rivolto all’omologo cinese, sottolineando che lo stato delle relazioni bilaterali “è il migliore di sempre” e che la visita di Xi rappresenterebbe il “main event” nelle relazioni bilaterali. Una retorica chiara da parte di Mosca che, sempre più isolata dai vecchi partner europei, vede nella Cina un appiglio al treno in corsa delle “grandi potenze”. Può, dunque, essere oggetto di dibattito se l’atteggiamento cinese rispetto alla guerra condizioni davvero l’attaccamento di Mosca al partner asiatico, solo un mese prima rispetto all’invito di Putin così diretto nell’ammonire le potenze nucleari globali sulla responsabilità che il possesso dell’arma atomica impone loro. Il dubbio non è sulla volontà russa di avvicinarsi alla Cina, ma su quella di Pechino di esporsi.
Certo, il Partito non ha mai condannato l’invasione russa dell’Ucraina, ma è probabile che, nonostante il disagio provocato dal duro colpo alla stabilità globale, attribuire alla NATO tutte le colpe sia piuttosto strumentale agli scopi cinesi. Wang Yi lo ha ribadito a Monaco, evidenziando le responsabilità statunitensi in relazione allo scoppio e al prosieguo del conflitto: per Wang, gli Stati Uniti non hanno tenuto conto delle “legittime preoccupazioni di sicurezza” della Russia spingendo per l’allargamento della NATO e, allo stesso modo, hanno anteposto il proprio “interesse strategico” ai benefici che la pace porterebbe al popolo ucraino.
Un’amicizia “di convenienza”
Banalmente, l’amicizia tra Pechino e Mosca conviene ad entrambi, e anzi è rafforzata dal manicheismo occidentale: o democrazia o “male”. Esistono però numerosi limiti al rapporto tra i due Paesi, non ultimo quello delle potenziali sanzioni che Stati Uniti ed Europa imporrebbero alla Cina in caso di supporto materiale alla Russia. Non sembra bastare il crescente legame in materia d’energia tra Cina e Russia per affermare che si stia configurando una vera e propria alleanza tra i due partner: ancora una volta, alla Cina conviene approfittare del mercato energetico russo, a corto di compratori.
Venendo ad un piano più generale, una forte contrapposizione tra i due Paesi sta nella visione globale che esprimono e in base alla quale operano. La Cina, infatti, si propone come baluardo della globalizzazione, minacciata dalla chiusura occidentale, dal protezionismo e, sottinteso, anche dalla guerra in Europa. Nonostante le legittime riserve sulla retorica cinese in questo senso, è evidente che il respiro della politica di Pechino vuole essere globale e un ribilanciamento sul “Paese del centro” della globalizzazione è l’obiettivo ultimo del “sogno cinese” della “nuova era”. L’approccio russo al fenomeno, invece, complici i termini più duri di integrazione nel processo offerti dall’egemone statunitense, è diametralmente opposto come evidente dalla sfiducia russa nel multilateralismo, con il rappresentante russo a New York che dubita “della capacità di mediazione delle Nazioni Unite”.
Vi sono dunque delle incongruenze di fondo tra le visioni russa e cinese e le differenze interessano ambiti diversi, dal nucleare alla globalizzazione. Coesistono con queste discrepanze anche elementi che spingerebbero l’uno verso l’altro i due giganti geografici, ma appaiono contingenti in termini storici ed esagerati dai prismi delle dicotomie occidentali. Di certo, Russia e Cina sono vicine su molti dossier, ma la volontà cinese di presentarsi come “potenza responsabile” al mondo mal si coniuga con l’appoggio “senza limiti” a chi, invece, si è reso responsabile di un attacco armato all’Ucraina e, contemporaneamente, alle fondamenta dell’ordine mondiale di cui la Cina stessa ha a lungo beneficiato.