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Cosa sta succedendo in America Latina? Intervista a Carmine de Vito.

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Il Centro studi Geopolitica.info ha intervistato l’analista Carmine de Vito, esperto di politica e geopolitica sudamericana. Un’occasione per comprendere le tensioni che avviluppano l’America Latina in questo complicato frangente storico. Le rivolte in Venezuela, il disarmo delle Farc in Colombia, la crisi politica in Brasile, il crollo dei prezzi delle materie prime.

Cosa sta succedendo in Venezuela?
La situazione in Venezuela è molto grave, anzi drammatica per le sue conseguenze sociali e umanitarie.  Al di là dei numeri da capogiro in cui si sta avviluppando l’economia e tutto il Paese: un’inflazione vicino all’800% , un deficit pubblico al 17% del Pil, doppio cambio e mercato nero a prezzi altissimi sui beni di prima necessità e la crisi della materia prima di riferimento; quello che più spaventa e che rende la partita fuori controllo è il clima di radicalizzazione, di odio sociale, fino a condizioni di para-anarchia. La rivoluzione bolivariana nella sua vocazione politica e diplomatica non esiste più, come non esiste tutta un’America latina che per più di un decennio ha sviluppato lungo l’asse Kirchner-Lula-Chávez un’originale politica di sistema continentale e di protagonismo internazionale. Oggi il Venezuela è la polveriera in un continente bloccato da un caos politico, istituzionale ed economico.

Si avverte tantissimo l’assenza di una potenza regionale autorevole, legittimata, capace di gestire  una mediazione sicura, garante tra le parti dei conflitti istituzionali in corso.

Il Brasile con la crisi del “Lulismo” e l’impeachment della Rousseff ha abdicato a tale ruolo, ripiegando su se stesso, con una involuzione che merita un’analisi a parte, con la conseguenza di atomizzare tutti i conflitti regionali, senza un sostegno di sistema.

È come se questa macro-area che aveva ottenuto forza, riconoscimento e onore in consessi internazionali (G20-G22), nelle nuove dinamiche economiche (Brics) si sia risvegliata un giorno con i piedi d’argilla, sgretolandosi nell’antico caos latinoamericano, tra l’esotico e il malinconico, senza sintesi e visione.

Il pessimismo su una via di uscita in Venezuela risiede proprio in questo; nel riaffaciarsi del vecchio schema che vede l’America latina muoversi come “arcipelago”, senon più giardino di casa del  vecchio Zio, ma semplicemente client degli interessi altrui. Sulla regione convergono ovviamente molti interessi.

In questo quadro di assenza di credibilità ed autorevolezza, ha senso il tentativo del Ministro degli Esteri argentino Susana Malcorra,che vede in prima linea il Vaticano e papa Francesco. Ma per riprendere il dialogo sembrerebbe che il Papa abbia posto come imprescindibile l’accettazione da parte del governo Maduro delle quattro condizioni fissate nel dicembre scorso dal cardinale segretario di stato Pietro Parolin, ovvero: l’autorizzazione all’invio di assistenza sanitaria internazionale; un calendario elettorale chiaramente stabilito; la restituzione delle prerogative al parlamento; la liberazione di tutti i prigionieri politici. Condizioni già respinte con sdegno, acuendo ulteriormente la diffidenza e radicalizzando lo scontro.

Un’altra personalità che potrebbe reggere le trame di una mediazione con qualche possibilità è quella dell’ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica che è intervenuto con un’intervista rilasciata a Carasy Careta sostenendo che “Il peggio che possiamo fare come latinoamericani è fare da sponda all’interventismo. La radicalizzazione e quello che sta facendo Almagro nell’Osa è un pericolo, non solo per il Venezuela, ma per tutto il continente”, riferendosi alla richiesta del presidente dell’Organizzazione degli stati americani volta a chiedere la sospensione del Venezuela. Ma, francamente l’impressione è che tutti lavorino per l’opzione Almagro.

 

In che modo la crisi venezuelana è legata alle vicende politiche colombiane?

Assolutamente, proprio in questi giorni la rivista colombiana La Semana è uscita con un articolo dal titolo “El fantasma del castrochavismo” sottotitolato “La mitad del país cree que Colombia está en peligro de convertirse en la próxima Venezuela. ¿Cuáles son las posibilidades reales de que eso suceda?”

Secondo un sondaggio promosso da Caracol Tv, Blu Radio e La Semana, il 55,4% dei colombiani ritiene che il paese sia “a rischio Venezuela”.

Colombia e Venezuela sono due “gemelli diversi”, tanto vicini e simili, quanto diversi anche nella composizione etnica e atavica. Negli ultimi lustri i due paesi sono stati interpreti di due esperienze politiche totalmente opposte, fino a momenti di quasi conflitto: ricordo solo, ad esempio, in relazione ai rapporti con i movimenti di guerriglia, l’uccisione di Raul Reyes nel 2008, il duro scambio di accuse tra Uribe e Chavez e l’invio dell’esercito a presidiare i confini.

Senza dubbio, la Colombia è attualmente il paese per dimensioni macroeconomiche più dinamico e quello che ha vissuto un processo di modernizzazione importante. Fino allo storico accordo di pace con le Farc siglato a Cartagena il 26 settembre scorso. In quell’accordo c’era tutto,  la sfida  all’ isolazionismo precipuamente culturale, le nuove e proficue relazioni con l’Unione europea, l’eliminazione del visto di ingresso nell’area Schengen, la fiducia nelle opportunità di una nuova fase.

La campagna referendaria terminata con la sconfitta del 2 ottobre ha rovesciato il clima rimettendo al centro del dibattito i sentimenti di vendetta e di paura; il castrochavismo così brandito sarà inevitabilmente un tema forte che condizionerà la campagna elettorale per le presidenziali del 2018, trattandosi di una crisi che porta con sè problematiche quotidiane sulla frontiera, sulla presenza di profughi e sulle possibili derive militari.

 

Il disarmo delle Farc come procede? La Colombia può sperare in un futuro di pace?

Il cronoprogramma previsto dal trattato di pace per il disarmo non sta subendo nessuna interruzione di sorta con le parti, che appaiono serie ed impegnate. Per parti intendo governo e Farc. Entrambi si stanno muovendo con un profilo di rispetto istituzionale;  chi non ha interesse alla pace, o meglio ha interessi legati all’indotto della cosiddetta “guerra permanente” o alla speculazione politica, ha maggiore agibilità nel caos. Purtroppo in questa America latina la condizione di caos finanziario, politico ed istituzionale è condizione attuale e trasversale fino all’Argentina passando per Brasilia.

In questi giorni le Farc hanno reso noto di aver consegnato la seconda trance delle proprie armi al personale delle Nazioni Unite incaricato di sorvegliare e garantire le parti nel disarmo.

Il gruppo dirigente delle Farc si dimostra molto avveduto, sa bene che non esistono le condizioni per la guerriglia e che le originali istanze di autodifesa hanno migliori prospettive in un accreditamento internazionale del ruolo sociale e dell’impegno storico alla pace.

Le parole del comandante delle Farc Pablo Catatumbo hanno questo senso: “Con questo evento, leFarc vogliono mostrare al paese e al mondo che stanno chiudendo un capitolo della storia del nostro paese e cominciano a scriverne un altro: quello della pace”.

 

Esiste una vera lotta alla produzione e al commercio internazionale di droga?

La domanda ha sia il pregio della logica, sia quello della chiarezza. Pertanto la risposta non può che essere negativa.

Ovviamente sono necessarie alcune osservazioni: la prima è che la Colombia non è lo stato fragile degli anni ’80 e ’90. Il Plan Colombia in questo senso, ha dato il migliore contributo,  specie nel sostegno strutturale alle istituzioni, alla riqualificazione dei processi di coordinamento e affermazione statuale tra centro e periferia. Altri aspetti sono più discutibili.

Affinché ci sia o ci possa essere una vera lotta alla produzione e al commercio internazionale di droga è necessaria la volontà di tutti gli attori sul campo.

Il governo con la rinnovata considerazione internazionale deve avere la capacità di controllare tutto quell’arcipelago di interessi, distretti, signorie terriere che si muovono in contiguità all’affairdroga. Quindi, l’eliminazione delle formazioni paramilitari che sono la plastica espressione di questi interessi e di una non volontà governativa.

Nel 2008 l’argentino Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte penale internazionale, dichiarava che le Farc e l’Eln erano responsabili del 12% delle vittime civili nei sanguinosi conflitti armati in Colombia, mentre l’80% era da attribuirsi alle formazioni paramilitari collegate ai cartelli del traffico della droga e il restante 8% alle forze di sicurezza governative .

L’accordo di pace raggiunto necessitadella convergenza di queste condizioni al fine di sostituire le colture illecite nelle aree di influenza delle Farc e un programma sanitario e sociale di sostegno alle economie rurali.

La lotta al narcotraffico non può essere la lotta di una nazione, deve necessariamente essere un’azione di contrasto di sistema nella macro-area, intensificando le politiche di cooperazione internazionale nelle aree di consumo. Ma tali considerazioni non sono compatibili con la condizione di caos continentale attuale. Non è un buon momento.

 

La crisi dei prezzi delle materie prime intacca l’intera America latina. Quali sono le cause? Come stanno reagendo i vari stati?

Assolutamente. Il crollo delle quotazioni delle materie prime, minerarie e alimentari, ha radicalizzato la crisi in economie mai diversificate e totalmente dipendenti. La condizione di vulnerabilità di tutta l’area è ancora più evidenziata dall’assenza o stagnazione di qualsiasi politica integrazionista.

Il Mercosur e altri tentativi di esprimere un progetto di integrazione e di tutela di economie strutturate verso l’export vivono una crisi politica di leadership.  Il cambio politico in Brasile e Argentina – le due locomotive continentali – ha prodotto una condizione di “liberi tutti” e la conseguente ricerca della più facile e immediata soluzione personale.

La geopolitica corre veloce, consuma posizioni e ribalta le opportunità; nel mondo vince chi fa politica , analisi e determina le condizioni del gioco. L’America latina in questa fase di caos politico e finanziario si riposiziona nella sua storica marginalità, dopo che le politiche di integrazione e coesione regionali le avevano assegnato un ruolo di global player per oltre due lustri.

In Brasile la lobby giapponese – i cosiddetti nippo-brasiliani, il 5% della popolazione – ha ripreso la sua centralità nei processi decisionali e di influenza in aderenza con la rinnovata politica estera giapponese nell’area del pacifico. Un’analoga attività si riscontra per gli interessi tedeschi in Brasile,  Argentina e Cile.

Alla sua terza visita in America latina, il presidente cinese Xi Jinping ha inaugurato la centrale idroelettrica Coca Codo Sinclair in Ecuador, finanziata con denaro cinese, stipulando in Ecuador,  Perù e Cile  accordi di cooperazione culturale ed economica nei settori strategici dell’energia, dell’estrazione mineraria e delle infrastrutture. Il cambio di strategia della Cina è radicale: non promuove la cooperazione tra aree di sistema e di convenienza, ma mira ad incunearsi nelle difficoltà particolari per massimizzare il risultato.

 

Anche il Brasile (membro Brics) vive una fase di profonda crisi economica e politica. E’ solo qualcosa di passeggero?

Brasile è il centro della crisi. L’acronimo Brics  è comunemente in disuso e derubricato in Rics.  È davvero molto complicato spiegare come un paese in pochissimo tempo passi dal riconoscimento internazionale come nuova potenza economica e modello di riferimento nella macro-area, fino ad implodere in una terribile crisi politica e istituzionale prima, economica e sociale dopo.

Ovviamente  la crisi delle quotazioni delle materie prime, la ristrutturazione del modello di sviluppo che negli anni di prosperità doveva rimodularsi e qualificarsi in servizi, qualità ed eccellenza sono seri elementi di discussione, ma sarebbe semplicistico ricondurre ad essi le cause delblack out del paese.

Vi è stato un corto circuito nella classe dirigente che non ha retto la competizione internazionale e le crescenti pressioni legate al processo di espansione dell’economia. I due eventi simbolo dell’ascesa brasiliana nel club dei global player, ovvero il mondiale di calcio nel 2014 e le olimpiadi di Rio de Janeiro nel 2016, lungi dal consolidare il prestigio e la crescita complessiva del paese e della sua rinnovata società civile, hanno man mano minato il consenso verso Dilma Ruoseff e, con l’incedere della recessione, hanno contribuito a costruire un clima di contestazione e sfiducia.

È questo il momento della rottura. Il sistema paese non regge e gli scandali e le inchieste sulla corruzione coinvolgono tutti, anche il “Lulismo” in una condanna generalizzata, arrivando al punto di non ritorno. Qui si ferma la corsa del gigante verde-oro che esce dalla geopolitica che conta, ripiegandosi su se stesso, sui suoi limiti e opportunismi.  Trasformismo, interi settori finanziari e conservatori, lobby e circoli autoreferenziali hanno fatto sì che un parlamento di corrotti animato da una furia moralizzatrice arrivasse a votare  la destituzione della Rouseff per presunto maquillage del bilancio – una sorta di “correzione non corretta” del bilancio pubblico – e sostituita dal suo vice Michel Temer, il quale non ha esitato a voltarle le spalle.

Procedura regolare, ma che cambia l’indice di credibilità e visione del paese. Quando si passa dalla spigolosità di una donna torturata con l’elettroshock dalla dittatura militare ad un piccolo imprenditore di provincia che cambia ogni giorno amici, il passo è breve.

 

Il sogno di una America latina integrata in una sola entità politica rimane un’utopia?

Octavio Paz defniva l’America latina come la “terra del perenne futuro”. L’utopia è uno stato emozionale che vive nei popoli sudamericani, ma senza etica tutto è molto più difficile.

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