Il tema dell’ambiente e dell’attivismo ambientale per i popoli indigeni in America Latina è un dibattito più che attuale: la discussione durante la COP26 di Glasgow e la nascita dell’Accordo di Escazù sono solo due dei recenti sviluppi in materia provenienti dal continente latino-americano. In una realtà globale sempre più in emergenza climatica, che ruolo stanno avendo le popolazioni indigene rispetto alla salvaguardia ambientale?
La questione indigena in America Latina
L’ambiente è considerato dalle popolazioni indigene come la ragione principale della propria esistenza, fonte della loro cultura e della loro tradizione: la comunità indigena stessa esiste in quanto si riconosce in quel preciso territorio e in quella particolare natura. Per questo, i nativi hanno una relazione sinergica con l’ambiente circostante.
Per quel che riguarda il contenente latino-americano, un rapporto dell’aprile 2021 della FAO (Food and Agriculture Organization) dal titolo “Forest Governance by Indigenous and Tribal People. An Opportunity for Climate Action in Latin America and the Caribbean” ha sottolineato un aspetto essenziale di questa relazione, ossia l’importanza dei popoli indigeni per la difesa e per la salvaguardia dell’ambiente. Il rapporto, infatti, evidenzia che gli indigeni occupano fisicamente 404 milioni di ettari in America Latina, un quinto della superficie totale della regione. Oltre a questo, circa il 35% delle foreste dell’America Latina si trova in aree occupate da gruppi indigeni e più dell’80% dell’area occupata dalle popolazioni autoctone è ricoperta da foreste. Il punto centrale del rapporto, quindi, è che le foreste che sono territorio indigeno dell’America Latina sono fondamentali per mitigare il cambiamento climatico e preservare la biodiversità. Infatti, per citare uno degli esempi che vengono fatti nel rapporto, i territori indigeni del Brasile hanno più specie di mammiferi, uccelli, rettili e anfibi rispetto a tutte le aree protette del Paese.
Le popolazioni indigene alla COP26
In occasione della COP26 tenutasi a Glasgow alla fine del 2021, le voci degli indigeni di tutto il mondo, compresi e soprattutto quelli provenienti dall’America Latina, si sono fatte sentire al fine di proteggere e tutelare la loro Madre Natura (Pachamama in lingua quechua, idioma nativo). In particolare, per la prima volta nella storia dello United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC), ventotto popolazioni indigene, di ciascuna delle sette regioni socioculturali indigene riconosciute dalle Nazioni Unite, sono state designate a partecipare direttamente come detentori di conoscenze e per condividere esperienze dirette e possibili soluzioni con i governi e i leader mondiali.
Sebbene le comunità indigene contribuiscano a malapena al cambiamento climatico, ne sono diventate una delle vittime più vulnerabili. Per questo, quello che chiedevano a gran voce, scendendo anche in strada con delle importanti proteste, era un’azione concreta da parte dei governi al fine di intervenire contro il cambiamento climatico. Un esempio diretto di tale mobilitazione proviene dal contesto brasiliano, dove le comunità indigene hanno sollecitato un’azione reale contro la deforestazione messa in atto negli ultimi anni dal Presidente Jair Bolsonaro. Secondo il rapporto “Dangerous man, dangerous deals” (2022) di Greenpeace, infatti, da quando Bolsonaro ha assunto la presidenza brasiliana nel 2019 la deforestazione amazzonica è aumentata del 75,6%.
Uno dei grandi temi affrontati durante la Conferenza è stato proprio quello della deforestazione, che tocca direttamente il continente latino-americano che ospita la seconda foresta più grande del mondo, la Foresta Amazzonica. Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Honduras, Haiti, Guatemala, Cuba, Messico, Panama, Perù, Repubblica Dominicana, Paraguay e Uruguay, insieme ad altri Paesi, si sono per questo impegnati a fermare la deforestazione entro il 2030, con a disposizione uno stanziamento da 19,2 miliardi di dollari.
I risultati della Conferenza però non sono stati soddisfacenti: pur riconoscendo l’importanza dei diritti indigeni e del ruolo che questi svolgono contro il cambiamento climatico, i leader mondiali non si sono impegnati a sufficienza per proteggerli. In generale, nella decisione finale adottata al termine della COP26 (il Patto per il clima) è stato riconosciuto “l’importante ruolo della società civile, compresi i giovani e le popolazioni indigene, nell’affrontare e rispondere ai cambiamenti climatici”. La decisione ha inoltre ravvisato “l’importanza di proteggere, conservare e ripristinare gli ecosistemi in modo che forniscano servizi cruciali, […] anche per le popolazioni indigene” e ha evidenziato il ruolo importante che la conoscenza e l’esperienza delle popolazioni indigene possono svolgere contro il cambiamento climatico. Infine, ha esortato “le parti a coinvolgere attivamente le popolazioni indigene nell’attuazione dell’azione per il clima”.
Al di là dei buoni propositi e degli annunci fatti, però, l’implementazione dell’accordo resta dubbia: il Patto sottoscritto a Glasgow, infatti, non ha carattere vincolante per le parti. Inoltre, quello che si prospetta è che i Paesi della regione che riceveranno i fondi, in particolare per lo stop alla deforestazione, dovranno investirli con cautela, poiché la corruzione attorno ai crimini ambientali è molto elevata e minaccia direttamente l’implementazione dell’accordo.
L’Accordo di Escazù: il caso cileno e il caso colombiano
Nell’analisi del rapporto tra questione indigena e questione ambientale, e per capire e discutere degli ultimi avvenimenti in materia in America Latina, è interessante soffermarsi su uno degli strumenti giuridici più innovativi a livello regionale in tema ambientale: l’Accordo di Escazú. Entrato in vigore nell’aprile 2021, l’Accordo regionale sull’accesso alle informazioni, la partecipazione pubblica e l’accesso alla giustizia nelle questioni ambientali in America latina e Caraibi prevede infatti all’Articolo 9 un puntuale diritto di protezione di cui dovrebbero godere gli attivisti ambientali. Il problema rispetto a questo trattato riguarda però lo stato delle ratifiche. Infatti, al marzo 2022 l’Accordo conta 24 stati firmatari, di cui soltanto 12 hanno depositato lo strumento di ratifica. Per questo motivo il rapporto tra la questione ambientale e la questione indigena in America Latina è considerata ancora un’emergenza. Basti considerare che, secondo il report di Front Line Defenders nel 2020 sono stati uccisi 331 attivisti, di cui il 69% ha riguardato proprio coloro che lottano per la difesa del diritto alla terra.
Due sono i casi emblematici che mostrano come, a livello regionale, la questione indigena e quella ambientale si intrecciano producendo risultati e scenari diversi. Nel clima precedentemente descritto, infatti, da un lato vi sono paesi come il Cile che, grazie ai recenti sviluppi politici e in particolare all’elezione del neopresidente Gabriel Boric, sembra aver posto al centro del dibattito e dell’azione di governo questi temi. Giustizia ambientale, sostenibilità, contrasto ai cambiamenti climatici e difesa dei popoli indigeni, infatti, occupano buona parte del programma elettorale che ha convinto la maggioranza dei cileni al ballottaggio del 19 dicembre 2021. Non a caso, l’adesione all’Accordo di Escazú è stata uno dei primi impegni presi dal nuovo Presidente cileno subito dopo le elezioni; adesione che è avvenuta poche settimane fa, con la ratifica del Senato cileno del 31 maggio 2022.
Dall’altro lato, però, vi sono casi come quello della Colombia che, nonostante abbia firmato l’Accordo nel dicembre 2019, non l’ha ancora ratificato. A prescindere dalla ratifica, però, in Colombia l’emergenza ambientale e indigena è più grave che mai: gli indigeni colombiani continuano a soffrire di altissimi livelli di disuguaglianza, povertà e, soprattutto, del mancato accesso ai loro diritti economici e sociali. I leader delle comunità sono inoltre vittime di attacchi continui e ripetuti. Come riportano i dati dell’ONG Global Witness, la Colombia è uno dei Paesi al mondo più pericoloso per gli attivisti e ambientalisti. L’episodio più recente (che risale al 18 gennaio 2022) ha riguardato Breiner David Cucuñame, attivista ambientale indigeno di soli 14 anni. Il ragazzo, parte della comunità dei Nasa, stava facendo un pattugliamento per la Guardia Indígena del Cauca, una rete di protezione comunitaria composta da donne, uomini, ragazzi e ragazze che difendono pacificamente le terre ancestrali, quando un gruppo di dissidenti delle ex-FARC-EP l’hanno ucciso con dei colpi di fuoco. Si è trattata di un’altra vittima che riflette l’estrema vulnerabilità di ambientalisti e indigeni nelle comunità sottoposte al fuoco incrociato dei gruppi di guerriglia e del narcotraffico.
Ma quali sono le ragioni per cui i difensori dei diritti umani, soprattutto indegni, sono così colpiti in Colombia? Secondo l’ultimo, già citato, rapporto di Front Line Defenders la motivazione principale riguarda il fatto che i difensori dei diritti umani sono stati trascurati dall’incapacità del governo colombiano di implementare i punti cruciali dell’Accordo di Pace del 2016. Tale ritardo ha portato al consolidamento di nuovi gruppi armati, di diversa matrice, in numerose aree periferiche del Paese, non controllate dal governo e popolate da comunità indigene, aumentando così la violenza esercitata contro queste ultime. Infine, la pandemia di COVID-19 ha contribuito a peggiorare la situazione, esacerbando ulteriormente la vulnerabilità delle popolazioni locali.
Conclusione
L’intreccio tra questione indigena e ambientale nel continente sudamericano è più attuale che mai: con l’avanzare dei pericoli provocati dal cambiamento climatico, a pagare il prezzo più alto sono i popoli indigeni, che rischiano di vedersi privati dei propri territori. Le richieste da parte delle popolazioni seguono, in generale, la direzione di una democrazia più matura, inclusiva, con al centro i diritti umani e che sia capace di riconoscere la diversità e di integrarla all’interno delle costituzioni nazionali. Lo scenario che si prospetta essere più favorevole per le comunità indigene latino-americane è quello di un allineamento dal punto di vista del diritto interno, regionale e internazionale, che comprenda anche aspetti vincolanti per gli Stati rispetto al riconoscimento dell’importanza dei territori per le popolazioni autoctone. Per questa ragione, se un possibile foro di discussione regionale potrà essere proprio la Conferenza degli Stati firmatari dell’Accordo di Escazú, grandi aspettative a livello internazionale sono riposte anche nella prossima COP che si terrà a Sharm el-Sheikh, in Egitto. In quest’occasione le popolazioni indigene dovranno necessariamente assurgere ad un ruolo da protagonista: infatti, è stato stimato da una valutazione della Forest Declaration Platform che le foreste abitate dai popoli indigeni assorbono il doppio dell’anidride carbonica rispetto al resto delle altre aree forestali. Di conseguenza, senza il loro coinvolgimento sarà impossibile rispettare gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi nel 2015 per combattere la crisi climatica e per questo è interesse della comunità internazionale nel suo insieme proteggere, tutelare e coinvolgere le popolazioni indigene nel dibattito nazionale e internazionale.