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Le contrastanti prospettive di una svolta socio ambientale tra i governi progressisti dell’America Latina

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Ora che i governi progressisti sono tornati al potere, in che misura i cosiddetti “progressismi fossili” precluderanno la possibilità di delineare una transizione eco-sociale? La nuova generazione di leader, in particolare Boric, Petro e Márquez, potrà esprimere un progressismo socio-ambientale?

La situazione politica in America Latina sta attualmente vivendo una fase di cambiamento, da molti definita come una seconda ondata progressista. Questa nuova classificazione, però, appare imprecisa: la realtà attuale in Sudamerica è molto variegata, con continuità e discontinuità rispetto all’ondata precedente.

Ciò è evidente se si guarda, ad esempio, ai differenti approcci dei nuovi esecutivi sulle questioni ambientali. Da un lato, ci sono governi progressisti in netta continuità con la linea del ciclo politico di inizio anni Duemila, che sembrano rispondere ad una logica “estrattivista” – l’accaparramento di risorse naturali ai danni di comunità locali che da quella ricchezza dipendono – e per questo vengono definiti “progressismi fossili”. Questo è il caso del governo Fernández in Argentina e del governo Luis Arce in Bolivia, che mostrano una mancanza di interesse nella promozione di un’agenda socio-ambientale e nella discussione dei possibili scenari per il superamento dei combustibili fossili. Dall’altro lato, stanno emergendo nuovi governi progressisti, come quelli di Gabriel Boric in Cile e Gustavo Petro in Colombia, che rappresentano la speranza di una “seconda generazione di progressismo” per la quale le questioni socio-ambientali, in particolare la crisi climatica e l’industria mineraria, possono essere affrontate come priorità orizzontali – ossia politiche non settoriali ma trasversali a più ambiti di policy – all’interno di programmi di governo integrati, in grado di superare la frammentazione nei processi decisionali e assumere una visione olistica e sistemica, capace di affrontare problemi profondamente intrecciati tra loro.

Argentina: la risposta del nuovo governo Kirchnerista alle questioni socio ambientali

Il ritorno ad un governo peronista in Argentina nel 2019 è stato accolto con entusiasmo da quella parte dell’opinione pubblica argentina nostalgica del kirchnerismo dopo il problematico governo neoliberista di Mauricio Macri – con scelte in politica economica che hanno portato ad aumento della disuguaglianza, della precarietà e alla recessione. Tuttavia, la vittoria della coalizione guidata da Alberto Fernández e Cristina Fernández de Kirchner non ha decretato un ritorno pieno alle posizioni e alle politiche del primo kirchnerismo. Sebbene Fernández abbia ampliato le politiche di riconoscimento della diversità sessuale e abbia firmato la legge sulla legalizzazione dell’aborto nel 2020, il suo governo ha assunto una posizione ortodossa in materia economica, vincolato dal debito ereditato dall’esecutivo precedente e alle prese con una crisi economica, sociale e finanziaria esacerbata dalla pandemia. L’impegno del governo di Alberto Fernandez di rispettare gli impegni presi con il Fondo Monetario Internazionale ha deluso le aspettative degli attivisti ambientalisti argentini, che speravano in una revisione delle politiche estrattiviste nel Paese. 

Sul piano ambientale, l’Argentina sconta gli effetti di quello che può essere definito uno “sviluppo insostenibile” – basato su modelli economici che faticano a conciliare crescita e sostenibilità, e che identificano fra i principali ostacoli al progresso fattori come il colonialismo, l’economia di sussistenza, scarsi investimenti in capitale umano e istituzioni deboli. In Argentina, questi modelli si sono concretizzati: dalla monocoltura della soia alla deforestazione su larga scala, dalla fumigazione con glifosato al fracking, dall’esplorazione petrolifera offshore all’estrazione del litio in ecosistemi fragili come l’altopiano andino. Sono stati fatti pochi progressi per quanto riguarda l’espansione incontrollata della produzione di soia, l’estrazione di scisto nel mega progetto di fracking a Vaca Muerta e le trivellazioni offshore in acque profonde. Applicando queste logiche insostenibili, l’Argentina sembra aver intrapreso un percorso di deterioramento ambientale e impoverimento delle sue risorse naturali, nonostante il suo straordinario potenziale in termini di biodiversità e capitale naturale. Un percorso da cui sarà difficile tornare indietro, se non si investirà presto su un nuovo modello di sviluppo realmente sostenibile.

In particolare, il litio illustra il nuovo equilibrio geopolitico che si va formando attorno alle materie prime strategiche per la transizione energetica. La battaglia è sul controllo della filiera, non solo delle risorse. Da una parte, solo pochi paesi controllano l’intera filiera, dal minerale al prodotto finale. Dall’altra, c’è una competizione per il dominio delle risorse e delle tecnologie. Il risultato è che oggi le principali aziende del settore sono cinesi (come BYD), le aziende di auto elettriche (Tesla) e poche corporation dell’estrazione (Albemarle, SQM, Livent, Orocobre, Ganfeng). Il rapporto commerciale tra Cina e America Latina, in particolare, ha rafforzato le asimmetrie e favorito l’estrattivismo. Gli investimenti cinesi si concentrano nell’estrazione (minerario, petrolifero, dighe) e nell’energia nucleare. Ad esempio, l’accordo Argentina-Jiankang Automobile Co punta a stabilirsi in Argentina per produrre batterie agli ioni di litio.

Il rifiuto di Fernández di accogliere le richieste socio-ambientali si inserisce in un contesto nazionale caratterizzato dalla presenza di un’industria estrattiva sempre più aggressiva e dall’espansione delle lotte eco-territoriali. Nel 2019, ad esempio, poche settimane dopo l’insediamento di Fernández, si sono verificate proteste di massa a Mendoza, quando il neoeletto governatore Rodolfo Suarez, in coalizione con il kirchnerismo, ha tentato di modificare la Ley 7722. Questa legge, promulgata nel 2007, proibiva l’uso di sostanze chimiche tossiche nell’estrazione dei metalli nella provincia. Le modifiche proposte avrebbero aperto la strada a progetti estrattivi su larga scala che avrebbero utilizzato milioni di litri di acqua potabile e di sostanze chimiche inquinanti. Nonostante i legislatori abbiano inizialmente approvato le modifiche, la popolazione ha reagito con una massiccia rivolta che ha paralizzato l’economia della regione. Di fronte a questa protesta, il governatore ha fatto marcia indietro e ha ripristinato la legge 7722 nella sua interezza.

Anche durante la pandemia, gli attivisti hanno continuato a denunciare i legami tra la crisi sanitaria, il neo-estrattivismo e il cambiamento climatico. Ad esempio, la distruzione intenzionale delle zone umide del Delta del Paraná ha messo in evidenza le pressioni esercitate dalle lobby imprenditoriali che rappresentano industrie come quella mineraria, immobiliare, agroalimentare e zootecnica. Nonostante le proteste e la richiesta di protezione degli ecosistemi, i governatori sembrano preferire l’approvazione di politiche favorevoli alle attività produttive, accusando gli ambientalisti di essere “proibizionisti”

Nel 2020, gli ambientalisti hanno rifiutato categoricamente la proposta del Ministero degli Affari Esteri argentino di costruire 25 fabbriche di suini per venderne i prodotti alla Cina, colpita da un’epidemia di peste suina. Grazie alle numerose proteste, il Governo ha fatto marcia indietro e ha realizzato una versione più modesta del progetto.

Anche la reazione ai progetti di trivellazione offshore ha rappresentato un punto di svolta nelle rivendicazioni socio-ambientali e nei rapporti con lo Stato: quando questi progetti sono stati presentati alla fine del 2021, si sono registrati ampi movimenti di resistenza e manifestazioni di massa. Tuttavia, il Governo è riuscito ad allineare il Ministero dell’Ambiente e dello Sviluppo Sostenibile per sostenere i progetti offshore e, dopo il via libera del Ministro Juan Cabandié nel dicembre 2022, sono stati approvati i permessi per effettuare studi di esplorazione del sottosuolo in tre zone del Mar Argentino da parte della società statale YPF e della multinazionale energetica norvegese Equinor.

Nel 2021, il Ministro dell’Economia, Produzione e Agricoltura ha annunciato un “Plan de Desarrollo Productivo Verde” per combattere il cambiamento climatico in Argentina. Tuttavia, nonostante il piano preveda una serie di iniziative per introdurre un sistema produttivo sostenibile, inclusivo e rispettoso dell’ambiente, la retorica sembra essere completamente scollegata dalle proposte di riduzione dell’estrazione di combustibili fossili. Nonostante l’impegno a ridurre le emissioni di gas serra del 26% entro il 2030, la proposta sembra ignorare le politiche pubbliche che favoriscono l’espansione della frontiera degli idrocarburi attraverso il fracking e le trivellazioni offshore. Inoltre, sebbene diverse parti o correnti all’interno del kirchnerismo riconoscano che l’espansione dello sviluppo dei combustibili fossili sia incompatibile con una politica di transizione energetica, il governo sembra ancora lontano dal presentare una politica di transizione concreta, di certo non favorito dal clima internazionale, che sembra giustificare il continuo utilizzo di combustibili fossili in nome della “sicurezza energetica”. Ci sono, infatti, settori progressisti all’interno del kirchnerismo (e del peronismo in generale) che sono sensibili alle questioni ambientali e sostengono la necessità di affrontarle o ci sono parti non completamente allineate, come organizzazioni sociali, sindacati, ONG ambientaliste ecc. che orientano le proprie scelte in quella direzione, mentre il movimento nel suo insieme non ha ancora completamente fatto proprie quelle istanze.

Colombia: verso il progressismo socio ambientale?

In Colombia, il nuovo governo del Pacto Histórico guidato dal presidente Gustavo Petro e dalla vicepresidente Francia Márquez fornisce un esempio contrario a quello argentino. L’obiettivo del governo è quello di creare una nuova agenda ambientale per uscire dal lungo ciclo della guerra civile del paese e promuovere uno sviluppo sostenibile. Petro e Márquez hanno entrambi una vasta esperienza nella lotta per i diritti sociali e ambientali. Petro ha parlato di questioni ambientali fin dal suo mandato come sindaco di Bogotà tra il 2012 e il 2015, mentre Márquez è una nota leader socio-ambientale afro-colombiana che ha guidato la Movilización de Mujeres Afrodescendientes por el Cuidado de la Vida y los Territorios Ancestrales nella lotta contro le miniere illegali nel sud-ovest del paese nel 2014.

Il tema ambientale ha una forte tradizione in Colombia, uno dei Paesi con la maggiore biodiversità al mondo, con una serie di leggi che proteggono i diritti della natura. Ne sono testimonianza alcune decisioni della Corte Constitucional de Colombia. Nel 2016, la Corte Constitucional ha riconosciuto il fiume Atrato nel Chocó come soggetto di diritti per garantirne la conservazione e la protezione. Nel 2018, un’altra storica decisione della Corte Constitucional ha riconosciuto la regione amazzonica colombiana come soggetto portatore di diritti, consentendo alle persone di chiedere la protezione dell’ecosistema stesso, indipendentemente dal suo impatto sulla vita umana.

In linea con questa tradizione, ed in contrasto con le scelte dei governi conservatori del passato, il governo del Pacto Histórico si sta orientando verso decisioni progressiste che sembrano sposare il principio del “buen vivir”, una visione del mondo pluralistica molto diffusa tra le comunità indigene in tutta l’America Latina e che abbraccia temi come la sovranità alimentare, i diritti fondiari, la giustizia ambientale, la solidarietà economica e la tutela della biodiversità locale. Ad esempio, il governo, con il sostegno strategico del Censat Agua Viva, ha presentato un piano di transizione energetica per “ridurre gradualmente la dipendenza dell’economia dal petrolio e dal carbone”, impegnandosi a vietare l’esplorazione e lo sviluppo di giacimenti non convenzionali e a fermare il fracking e i progetti pilota offshore.

Sebbene le discussioni siano appena iniziate, la transizione graduale ed equa proposta da Petro include protezioni per i settori delleconomia e del lavoro che dipendono dall’estrazione di combustibili fossili. Ciò implica non solo cambiamenti nel mix energetico, ma anche opportunità per promuovere la diversificazione economica e il decentramento.

Per quanto concerne l’Amazzonia, il governo Petro ha proposto di creare un gruppo di lavoro che comprenda Bolivia, Brasile, Ecuador, Perù, Suriname e Venezuela per fermare l’estrazione di idrocarburi. L’iniziativa colombiana inserisce nell’agenda politica una giusta transizione energetica, invita alla partecipazione dei cittadini, sfida l’estrazione mineraria in America Latina dando credito alle richieste dei settori ambientali emarginati in altri Paesi.

Il nuovo governo colombiano potrebbe dunque inaugurare una nuova era per il Paese e per l’intera regione. Tuttavia, non sarà facile. Le sfide politiche e sociali sono enormi ed estremamente complesse; la realizzazione del programma di transizione eco-sociale è probabilmente quella più grande.

Una prospettiva geopolitica

La transizione energetica e produttiva rappresenta una sfida per tutte le società, specialmente nei paesi periferici, con gravi limiti economici e tecnologici, il cui inserimento internazionale si realizza attraverso l’esportazione di materie prime. In questo senso, ancora oggi, l’America Latina è vista, dalle potenze extra-regionali come Cina, Unione Europea, Stati Uniti e Russia, come un importante serbatoio di risorse naturali strategicamente importanti per affrontare la crisi climatica ed ecologica. Questa visione si applica però anche alla classe politica ed economica dominante della regione. Nonostante tutti i paesi della regione stiano fissando obiettivi di decarbonizzazione per lo sviluppo sostenibile e promuovano le energie rinnovabili, infatti, l’agenda estrattivista continua a espandersi e nessun paese ha promosso in modo coerente un’agenda produttiva attraverso politiche statali in materia di agroecologia e pratiche di ripristino. 

È importante sottolineare come l’espansione dell’agenda estrattivista includa anche le energie rinnovabili. Infatti, in nome della transizione verde, si sta attuando un nuovo colonialismo energetico che aggrava l’espropriazione delle terre e la distruzione ecologica, come nel caso dell’estrazione del litio e del legno di balsa utilizzato per costruire turbine eoliche. Questo ha portato all’aggiunta dell’“estrattivismo verde” all’elenco delle industrie estrattive esistenti, al servizio di una transizione che, invece di ridurre il divario tra paesi poveri e ricchi, aumenta il debito ecologico ed espande ulteriormente le terre da sacrificare.

Come si è visto da questa analisi, emergono due modelli opposti di gestione ambientale e sviluppo sostenibile, sintomo dei diversi percorsi politici e storici dei due paesi. Queste divergenze rimandano a distinte concezioni di progresso e benessere, così come a rapporti diseguali di potere tra attori economici e ambientalisti nei due paesi. In Argentina, prevalgono interessi legati a settori estrattivi, mentre in Colombia sembra affermarsi una visione più ecologica, legata alla giustizia socio-ambientale. In secondo luogo, le analisi mettono in luce una crescente conflittualità in entrambi i paesi, seppur di segno opposto. In Argentina, numerose mobilitazioni hanno cercato di contrastare la marginalizzazione di questioni ambientali, senza però riuscire ad arrestare un modello di sviluppo insostenibile. In Colombia, al contrario, il nuovo corso inaugurato dal presidente Petro potrebbe aprire una nuova fase di politiche ambientali partecipate.

Tuttavia, in entrambi i casi, permangono sfide enormi all’attuazione di una reale “transizione ecologica”, sebbene le prospettive appaiano opposte. Le resistenze a cambi di rotta strutturali sono molteplici, di natura politica, economica e sociale. Governi deboli, interessi consolidati, dipendenza da fonti fossili, pressioni internazionali sono solo alcuni dei possibili ostacoli. D’altro canto, proprio le politiche energetiche dei paesi e blocchi centrali rallentano l’agenda di decarbonizzazione. Sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea considerano il gas naturale e l’energia nucleare come una sorta di combustibile ponte o energia pulita, contribuendo all’espansione del modello dei combustibili fossili, tra cui il fracking e lo sfruttamento del petrolio offshore e la crisi energetica globale sta esacerbando la situazione. La situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che le élite economiche e politiche dell’America Latina non vedono la transizione energetica come una necessità sociale. Nonostante le ripetute dichiarazioni sulla gravità della crisi climatica, sia i governi progressisti che quelli conservatori condividono un punto cieco, separando la crisi climatica dall’estrattivismo e dai modelli di sviluppo. 

È fondamentale, quindi, che gli sforzi per la transizione energetica siano guidati da un’agenda produttiva sostenibile e a basso impatto ambientale, con politiche statali che promuovano la diversificazione economica e la sovranità energetica dei paesi della regione. Solo così l’America Latina potrà affrontare la crisi climatica ed ecologica in modo giusto ed equo, evitando l’espansione dell’agenda estrattivista e dei combustibili fossili che minacciano la sua sovranità e il suo futuro.

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