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Alleanze indopacifiche per contenere la Cina: il ruolo di Taiwan e dell’Asean

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La notizia della firma di un nuovo accordo commerciale tra Stati Uniti e Taiwan ha suscitato la reazione immediata della Cina, che ha espresso le sue preoccupazioni definendo la notizia come un segnale sbagliato da inviare al governo di Taipei, considerato da Pechino come un ostacolo alla riunificazione dell’isola con la madrepatria continentale. Incorporando Taiwan, la RPC arriverebbe a impadronirsi di una posizione strategica fondamentale ai fini della sua proiezione marittima nel mar Cinese meridionale, teatro di dispute, assieme al mar Cinese orientale, con gli Stati rivieraschi circostanti, che controllano territori insulari strategici ai fini del controllo delle rotte commerciali nell’area mantenendoli accessibili alla libera navigazione. Pertanto, le iniziative di cooperazione interstatale nella regione sono fortemente soggette alle contrapposte influenze di Stati Uniti e Cina, rivali strategici che puntano a erodersi reciprocamente gli spazi di manovra in un gioco a somma zero decisivo per i futuri equilibri globali.

Il recente accordo commerciale siglato tra Stati Uniti e governo di Taiwan rappresenta un ulteriore tassello nella storica cooperazione strategica tra le due parti, proseguita a diversi livelli nonostante la storica “One China policy” perseguita da Washington dopo la normalizzazione dei rapporti con la Cina comunista avvenuta negli anni Settanta del XX secolo. L’accordo commerciale in questione si inserisce nella 21st Century Usa–Taiwan Initiative, che si presenta come il patto di collaborazione più ampio mai siglato tra le parti sin dal 1979, quando, per compensare Taipei dopo il riconoscimento di Pechino quale unica Cina, la Casa Bianca si è impegnata a fornire assistenza al governo dell’isola secondo quanto previsto dal Taiwan Relations Act. Pertanto, allo scopo di implementare l’accordo odierno, in un secondo momento si renderanno necessari altri negoziati per definire nel dettaglio i contenuti, che riguarderanno settori come il lavoro, il commercio digitale e l’ambiente. I potenziali sviluppi dei progetti connessi a tale intesa hanno destato un’immediata reazione da parte di Pechino, che ha espresso le sue preoccupazioni bollando il tutto come un “segnale sbagliato” inviato alle forze separatiste di Taiwan.

La cooperazione tra Washington e Taipei, nonostante le disparità in termini di forza economica, politica e militare, è sempre stata dettata dal vantaggio reciproco per entrambe le parti dato che, a fronte del pluridecennale sforzo economico statunitense profuso in aiuti economici e armamenti, Taiwan continua ad assicurare agli Stati Uniti una base strategica nella regione. Sul fronte opposto, la Cina considera la piccola realtà insulare come un proprio territorio mancante e proclama espressamente l’intenzione di condurlo sotto il suo pieno controllo al fine di riunificarlo alla madrepatria. Al di là dei proclami ufficiali, i progetti per la cosiddetta isola ribelle immaginati dai vertici di Pechino si basano su motivazioni meramente geostrategiche, che hanno all’origine la volontà di rendere Taiwan una base cinese atta ad assicurare alla marina del PLA il controllo di aree marittime fondamentali per gli equilibri di potere tra gli Stati della regione indopacifica. Territori insulari come Taiwan, o come gli arcipelaghi delle Spratly, delle Paracel o delle Senkaku rappresentano infatti il principale ostacolo alla proiezione marittima di Pechino, che ambisce dal canto suo a superare la dimensione tellurica delle sue forze armate per assicurarsi in tal modo lo status di potenza globale.

Dinanzi alle iniziative di una potenza ancora di fatto terrestre come la Cina, che intende riscrivere gli equilibri internazionali in senso multipolare, gli Stati Uniti continuano ad adoperarsi affinché Pechino non acquisisca capacità di proiezione strategica tali da compromettere la capacità operativa statunitense nella regione indopacifica. Il primo passo per scongiurare tale scenario è stato il “Pivot to Asia” lanciato dall’amministrazione Obama, che ha aumentato la presenza militare a stelle e strisce nell’area con l’obiettivo di impedire alla marina cinese di acquisire capacità di interdizione tali da pregiudicare la libera navigazione nel mar Cinese orientale e nel mar Cinese meridionale. I vertici politico-militari cinesi appaiono tuttavia propensi a non farsi trovare impreparati dinanzi a qualsiasi possibilità di unificare Taiwan al continente, sia se ciò dovesse avvenire con mezzi militari sia nel caso di una soluzione negoziale tra i principali attori in gioco. Pertanto, se da un lato la Cina continua a portare avanti la territorializzazione delle isole presenti nei mari intorno alle sue coste erodendo progressivamente gli spazi di manovra degli altri Paesi, dall’altro tende ad agire in maniera più esplicita nei confronti di Taipei, che continua a essere oggetto di sempre più frequenti incursioni aeree e navali compiute dalle forze armate cinesi.

I piani della RPC per ridisegnare a gli equilibri della regione non si basano tuttavia solo sulla forza militare, ma passano anche per la cooperazione multisettoriale con gli Stati indopacifici, con iniziative che possono essere lette come tappe intermedie per arrivare a controllare aree strategiche come lo stretto di Malacca, decisivo per il transito di miliardi di dollari di merci statunitensi. Un ruolo chiave nel definire gli equilibri regionali sarà giocato altresì dai Paesi Asean, attenzionati sia dall’Occidente, Stati Uniti in primis, sia da Pechino, poiché strategici per il controllo dei traffici marittimi nell’Indopacifico. In tale contesto geostrategico, il piano per elaborare un codice di condotta marittima da sottoporre ai Paesi Asean inquadrandoli in un sistema di regole condivise che, seppure in via informale, punta a limitare l’influenza degli Usa e dei loro alleati asiatici nella regione, rappresenta un tassello importante del disegno politico-strategico cinese. Queste linee guida discusse durante l’ultimo vertice Asean hanno ricevuto pareri positivi da Filippine, Malesia, Brunei e Vietnam, anche se la postura internazionale di questi Stati non è filocinese, date le dispute con Pechino causate proprio da mire contrapposte su porzioni di mar Cinese meridionale dall’alto valore strategico e dall’alto potenziale economico in quanto ricche di idrocarburi non sfruttati. In tale contesto geostrategico, Washington è l’unico attore statale in grado di aggregare i Paesi dell’area, desiderosi di controbilanciare l’assertività cinese sia ospitando nuove installazioni militari statunitensi sul proprio territorio, come nel caso delle Filippine, sia tramite la cooperazione in materia di sicurezza come quella che include Washington, Tokyo e Seul. Il coinvolgimento di Giappone e Corea del Sud in un meccanismo di coordinamento trilaterale in materia di sicurezza promosso dall’amministrazione Biden ha tuttavia destato perplessità da parte dei vertici di Pechino, cauti su qualsiasi iniziativa che possa far convergere più Paesi sull’obiettivo di contenere l’ascesa cinese. Tuttavia, al di là degli annunci ufficiali in merito quella che è stata ribattezzata da più parti come “Nato asiatica”, e delle quasi contemporanee rivendicazioni territoriali contenute nella nuova edizione della mappa standard della Cina, risulta remota la possibilità che nasca una coalizione anticinese. È infatti altamente improbabile che Paesi accomunati dal timore causato dalle velleità cinesi, ma contrapposti tra loro da  rivendicazioni territoriali incrociate, abbandonino l’ombrello protettivo degli accordi bilaterali con Washington schierandosi tutti insieme a fianco degli Stati Uniti, impegnati con la Cina in un gioco a somma zero che vede in palio l’egemonia nello scacchiere indopacifico, e di riflesso in quello globale.

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