La guerra civile tra le forze federali somale e Al Shabaab ha lacerato la Somalia per più di quindici anni non mostrando segni di miglioramento. Nel corso degli anni, Al Shabaab ha saputo adattarsi alle campagne di contro-insurrezione delle forze governative, radicandosi sempre più nella società somala. Nonostante la recente elezione alla presidenza di Hassan Sheikh Mohamud sia un segnale incoraggiante nel processo di pacificazione del paese, è molto improbabile che lo scontro possa risolversi senza un coinvolgimento dei miliziani.
Eletto per la seconda volta alla presidenza della Repubblica, Hassan Sheikh Mohamud, capo del partito Unione per la Pace e lo Sviluppo, è da molti visto come un leader inclusivo e adatto ad affrontare le sfide che il paese ha di fronte, a partire dalla forte ondata di insicurezza causata dai recenti attacchi terroristici di Al Shabaab nella capitale Mogadiscio. Mohamud sarà chiamato a operare su due fronti: rafforzare le operazioni militari e di polizia per mettere in sicurezza le aree più instabili del paese e, contemporaneamente, cercare di coinvolgere i leader di Al Shabaab in un dialogo politico per ridurre il livello di violenza.
La missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM): un bilancio in perdita
A partire dai primi anni del 2010, le campagne militari congiunte del governo federale e del contingente militare della missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) hanno portato alla cacciata di Al Shabaab dalle maggiori città somale. Tuttavia, la situazione degli ultimi anni si è fortemente deteriorata a causa delle profonde divisioni interne alle forze politiche, che hanno portato a un consolidamento di Al Shabaab in molte aree del paese, precedentemente sotto il loro controllo. Inoltre, le difficili relazioni tra il governo federale e alcuni Stati membri si sono deteriorate sotto la presidenza di Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmajo”. Oltre a questo, le élite somale hanno da tempo accumulato tensioni sfociate in lotte di potere, che hanno messo in secondo piano la lotta contro Al Shabaab.
In linea di principio, nonostante il rinnovamento del mandato AMISOM fino al 2024 terrà occupato Al Shabaab per rafforzare le forze di sicurezza somale, nella realtà in pochi credono che queste possano essere pronte in un futuro prossimo. I lunghi dibattiti tra i donatori internazionali sull’opportunità di estendere la missione dimostrano come la volontà di mantenere l’attuale livello di assistenza esterna stia svanendo. Al Shabaab, da parte sua, ha dimostrato una forte capacità di reazione e adattamento, adottando forme di guerriglia urbana che hanno creato non pochi problemi alle forze governative, cercando anche di evitare costose battaglie frontali. Il controllo delle aree rurali da parte di Al Shabaab, supporta il sistema di reclutamento dei miliziani. Il gruppo ha inoltre iniziato a mandare propri operativi nelle maggiori città, per mettere in atto estorsioni a danno di piccoli imprenditori e generare gettito fiscale per le proprie casse.
Uno stallo difficile da superare
In una tale situazione di stallo, sono emerse due posizioni distinte. Da una parte, le autorità governative somale, che spingono per mantenere l’attuale indirizzo, rafforzare l’esercito e le forze di polizia, e incrementare gli sforzi militari per avere il sopravvento su Al Shabaab. Quest’ultimo, da parte sua, incoraggiato dal successo dei talebani in Afghanistan, punta sull’attuale debolezza del governo federale e sull’impazienza dei partner esterni per l’attuale situazione, per prendere il potere. Ma entrambe le parti sopravvalutano le proprie possibilità: pochi elementi suggeriscono che Al Shabaab sarà sconfitto militarmente ed è fortemente improbabile che i militanti prevalgano nel lungo periodo. È più probabile, invece, un intervento militare diretto delle potenze regionali, se la situazione di sicurezza dovesse ulteriormente deteriorarsi e creare instabilità nella regione.
Gli ostacoli al dialogo politico
Gli appelli al dialogo politico da parte della società civile e degli attori internazionali sono mossi prevalentemente dalla frustrazione per l’attuale status quo. Tra le tante questioni aperte sul tavolo vi sono: l’affiliazione di Al Shabaab ad al-Qaeda; l’ostilità di Etiopia e Kenya, da sempre contrari ad aperture verso i miliziani a fronte dei numerosi attacchi terroristici subiti, nonché per la posizione islamista e pan-somala di cui Shabaab è portatore; l’ostilità di molti attori politici somali, che rifiutano l’idea del dialogo. E il paradosso è che l’opposizione al movimento islamista non si è mai tradotta in un sostegno alle autorità governative al potere. Dall’altra parte, i leader di Al-Shabaab non riconoscono il governo federale in quanto illegittimo e mostrano poca disponibilità a scendere a compromessi con la controparte sulla loro visione di governo.
Possibili prove di dialogo
Per superare l’attuale situazione di stallo, sarebbe opportuno che il neo-eletto presidente Mohamud inizi a testare le acque per capire se un dialogo con Al-Shabaab sia fattibile o meno. L’iniziativa può assumere diverse forme: conferire l’incarico a un inviato, istituire un comitato di individui in grado di contattare i leader di Shabaab o, come accaduto in più occasioni, affidare l’iniziativa alle Nazioni Unite. L’obiettivo immediato sarebbe quello capire quali sono le precondizioni per il dialogo e, conseguentemente, avviare una serie di colloqui. Se questi ultimi rivelassero la disponibilità a impegnarsi da entrambe le parti, si potrebbero adottare misure di cessate il fuoco locali e garantire assistenza umanitaria alle popolazioni che vivono sotto il controllo dei miliziani, data anche la siccità che ha colpito il paese. Le prospettive di successo di una tale operazione sono basse – Al Shabaab potrebbe respingere ancora una volta le aperture di Mogadiscio – ma il costo per tentarla, di per sé, è altrettanto basso. La maggior parte dei rischi, se presi debitamente in considerazione, sono gestibili.
Non c’è un momento ideale per aprire un dialogo con Al Shabaab, ma ha senso provare. Il dibattito che ha preceduto il rinnovo del mandato della missione dell’Unione Africana in Somalia dovrebbe essere preso molto sul serio da tutti gli attori politici per domandarsi quanto ancora abbia senso tale missione nel paese. Il ritiro delle forze armate straniere è sempre stato una conditio sine qua non di Al Shabaab per il dialogo. I legami dei miliziani con al-Qaeda e le attività terroristiche al di fuori dei confini della Somalia, restano ostacoli scoraggianti. Ma sono anche questioni che devono essere affrontate attraverso la negoziazione e il dialogo piuttosto che con il conflitto. Se i precedenti in altri luoghi del mondo hanno insegnato qualcosa è che il dialogo politico è un processo lungo e incostante. Il presidente Mohamud è salito al potere promettendo la riconciliazione tra i somali. La domanda su cui ruota il processo di pacificazione in Somalia è se la riconciliazione nazionale debba estendersi anche ad Al Shabaab.
Le opinioni espresse nell’articolo non rispecchiano necessariamente quelle dell’Agenzia Italia per la Cooperazione allo Sviluppo.