Il conflitto russo-ucraino e la lotta ai cambiamenti climatici hanno segnato la competizione geopolitica in Africa in materia di energia. Gli interessi energetici e di lotta ai cambiamenti climatici si scontrano però con una crisi economica e finanziaria che sta colpendo molti Paesi africani. Se lo sviluppo economico africano passa per quello energetico, la just transition del continente deve tener conto delle numerose – e diverse – dinamiche interne ai Paesi che lo compongono.
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La possibilità che l’Africa subsahariana ponga le basi del suo sviluppo direttamente su una rete infrastrutturale ed energetica a basse emissioni, senza passare per una fase ad alta intensità di carbonio, rimane non solo ipotetica, ma vantaggiosa solo per alcuni Stati. Ci sono, altresì, Stati che potrebbero essere avvantaggiati dall’utilizzo di combustibili fossili e non interessati a intraprendere un’ “energy leapfrogging”. Quindi, queste differenti necessità politico-economiche degli Stati africani si intrecciano con gli interessi degli altri attori internazionali che proiettano in Africa interessi altrettanto frammentati. Attori statali e non statali stanno inoltre giocando le loro carte per stringere partnership più strette con i Paesi africani al fine di assicurarsi l’accesso alle risorse energetiche e minerarie e ai mercati emergenti del continente. Tuttavia, tralasciare l’agency dei Paesi africani rende difficile comprendere le scelte politiche e i conseguenti equilibri che si creano a livello regionale e internazionale sul piano energetico. Nelle pagine seguenti si tenterà di ripercorrere i principali sviluppi geopolitici e geoeconomici che hanno caratterizzato la politica africana sul piano energetico. Più in particolare, verranno trattati i rapporti in tema energetico tra Europa e Africa.
Le conseguenze del COVID e della guerra sulle strategie europee in Africa
Il tradizionale interesse per le risorse naturali africane è stato amplificato dalla crisi energetica conseguente allo scoppio del conflitto russo-ucraino a partire dallo scorso mese di marzo. Soprattutto gli Stati dell’Unione Europea in cerca di nuovi fornitori di idrocarburi e di energie rinnovabili si sono rivolti agli Stati africani. Nel rivolgersi all’Africa come partner per la sicurezza energetica europea, l’Italia si sta posizionando come attore chiave sia dal punto di vista geografico che politico in un continuum tra il governo Draghi e quello Meloni. Lo dimostrano prima le numerose missioni diplomatiche di Roma in Africa subsahariana a cui ha partecipato in prima persona e a partire dalle prime settimane dallo scoppio della guerra l’allora Ministro degli Esteri Luigi Di Maio; poi l’approvazione da parte della Commissione Europea della costruzione di un nuovo elettrodotto che trasporterà l’energia fotovoltaica tunisina in Europa passando per Trapani, con un forte investimento politico del neoeletto governo Meloni. L’elettrodotto, inoltre, sembra essere un passo avanti verso l’ambizioso progetto geopolitico del governo Meloni per rendere l’Italia un “nuovo hub energetico per l’intero continente europeo”. Nel passaggio da una legislatura all’altra, con diversi partiti e attori al governo, l’approccio italiano all’Africa non è cambiato. Roma si è rivolta all’Africa in cerca di opportunità per accedere alle risorse energetiche africane per sostituire quelle russe, muovendosi, però, non sempre in accordo con l’UE.
Gli interessi dell’UE in Africa collidono sia con quelli dei singoli Paesi africani che, talvolta, con le diverse strategie intraprese dagli stessi Paesi membri dell’UE. Infatti, se il generale interesse dell’UE per le risorse energetiche africane si lega anche a una narrazione di just transition e di sviluppo sostenibile, gli interessi dei singoli Paesi spesso soprassiedono il più ampio schema dell’Unione e perseguono i propri interessi, dando priorità alla sicurezza energetica e non alla transizione energetica. Pertanto, il tentativo dell’UE di tornare a dialogare come attore unitario con i Paesi africani dopo i fallimentari accordi di Cotonou mostra che Bruxelles ancora non agisce tenendo conto dei suoi errori. Come ribadito anche durante i negoziati della COP27, l’UE ha promesso fino a 150 miliardi entro il 2030 per il sostegno allo sviluppo energetico in Africa, con fondi vincolati alle energie rinnovabili, che non garantiscono sempre il più rapido accesso diffuso all’energia, né necessariamente sono la via più rapida allo sviluppo economico per i Paesi africani. Il pacchetto di investimenti europeo per l’Africa, l’“EU-Africa: Global Gateway Investment Package”, prevede che i 150 miliardi siano utilizzati per realizzare non solo progetti di sviluppo energetico, ma anche di infrastrutture e di adattamento ai cambiamenti climatici con obiettivi ambiziosi, soprattutto se si considerano le tempistiche che hanno scadenza entro il 2030. Sul piano energetico, però, l’iniziativa dell’UE si concentra solo sulle energie rinnovabili e sull’idrogeno, ma l’estrazione e, soprattutto, il trasporto dell’idrogeno sono ancora in fase di sperimentazione e non sono procedure impiegate su larga scala, tanto che l’orizzonte temporale entro cui sembra plausibile vedere un utilizzo diffuso dell’idrogeno sembra superare il decennio. L’EU-Africa Global Gateway Investment Package parallelamente allo sviluppo energetico sostiene anche progetti di agri-food sostenibile e resiliente ai cambiamenti ambientali e climatici e un insieme di attività volte a sostenere l’educazione, l’innovazione e la transizione digitale, con una visione ampia dello sviluppo sostenibile.
Quindi, il supporto dell’UE si limita a favorire la transizione verde in un continente che contribuisce cumulativamente alle emissioni di CO2 totali inferiori al 5%. Un continente, quello africano, con un enorme potenziale energetico rinnovabile e a basse emissioni, ma non solo. Negli ultimi dieci anni circa la metà delle scoperte dei nuovi pozzi di gas al livello globale è avvenuta in Africa. L’International Energy Agency già nel 2014 stimava che l’Africa disponesse di riserve combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) sufficienti a soddisfare la domanda interna al continente. Tuttavia, queste risorse energetiche rimangono solo potenziali, in quanto difficoltà di natura politica e infrastrutturale rendono complicata l’estrazione e la raffinazione delle fonti energetiche, nonché la loro distribuzione. Alcuni Paesi africani, però, dove queste riserve sono più concentrate e maggiormente accessibili continuano a puntare sui combustibili fossili e ad attirare investimenti di multinazionali e non solo europei. I finanziamenti dell’UE vincolati alle energie pulite cedono quindi il passo agli interessi economici e politici dei singoli Paesi africani.
Le necessità africane e la miopia dell’Europa
L’altra faccia della medaglia sono, quindi, le necessità africane guidate da altre priorità nell’ambito energetico ed economico. I Paesi africani sono più interessati a politiche di adattamento che a quelle di mitigazione dei cambiamenti climatici. Il rischio è infatti che l’ambizioso EU-Africa Global Gateway Investment Package non tenga in considerazione l’agency dei singoli Paesi africani che potrebbero continuare a preferire, a fronte dei fondi europei, quelli cinesi o dei Paesi del Golfo, spesso concessi a condizioni economicamente svantaggiose, ma meno vincolati a questioni di tipo ambientale o giuridiche. A questo bisogna aggiungere che gli interlocutori europei hanno dato poco peso alla crisi economico-finanziaria che sta colpendo i Paesi africani. I media europei hanno trattato a più riprese la questione dei prezzi dell’energia e dei beni alimentari e delle possibili conseguenze sui flussi migratori verso l’Europa. Così, l’attenzione per l’Africa è ancora una volta catalizzata più da interessi di sicurezza europea, che dalle dinamiche interne al continente africano. Al contrario, sono state poche le attenzioni rivolte a quelle che sono state le conseguenze congiunte dell’epidemia da COVID-19 e dell’aumento dei prezzi di energia sugli Stati africani. L’aumento dei prezzi delle materie prime non ha portato grandi benefici all’Africa, neanche a quei paesi esportatori netti di idrocarburi. In generale, l’epidemia da COVID, l’aumento dei costi del grano e il rallentamento dell’economia globale hanno sferzato un duro colpo alle deboli economie africane, riaprendo la questione della ristrutturazione del debito.
Nel 2008 l’Africa subsahariana era rimasta pressoché isolata dalla crisi economico-finanziaria che aveva travolto i Paesi più integrati nella finanza internazionale. A partire dal 2020, invece, ben quattro Paesi africani hanno dichiarato il default o hanno avviato trattative per la ristrutturazione del debito. Si tratta di Zambia, Ciad, Mali ed Etiopia, tutti Paesi che hanno vissuto anche profonde crisi politiche interne. Tuttavia, l’aumento del debito pubblico dei Paesi africani non sostenuto da altrettanta crescita rappresenta una tendenza diffusa nel continente. La Nigeria, ad esempio, la più grande economia africana esportatrice netta di petrolio, non è riuscita a beneficiare degli aumenti dei prezzi degli idrocarburi. Al contrario, Abuja ha visto aumentare il suo debito pubblico in modo considerevole, poiché dall’inizio della guerra sta erogando un generoso sussidio per calmierare i prezzi del carburante. Le politiche fiscali espansive hanno contribuito a portare l’inflazione del Paese oltre il 20%. L’incapacità di sfruttare l’aumento dei prezzi del petrolio è dovuta a dinamiche interne al Paese. Prima fra tutte queste cause va ricordata la corruzione che permette la dispersione dei ricavi provenienti dall’estrazione e dalla raffinazione del petrolio. Vi è poi la debolezza dello Stato nel contrastare le numerose attività di banditismo e di attacchi alle infrastrutture dell’industria petrolifera. Infine, sono mancati negli anni investimenti che rafforzassero le capacità di raffinazione del greggio in loco. Per questo tipo di capacità è stata avviata la costruzione di piccole raffinerie modulari in grado di ampliare la capacità di raffinazione nelle aree più remote e meno collegate, per poi trasportare più facilmente i barili.
Il caso della Nigeria, la più grande economia dell’Africa subsahariana, è esemplificativo di come considerare gli elementi interni agli Stati africani sia necessario per poterne comprendere le scelte politiche ed economiche in ambito sia domestico che internazionale.
L’agency africana deve essere considerata
In conclusione, lo sviluppo energetico in Africa, soprattutto a sud del Sahara, è centrale per lo sviluppo del continente. Allo stesso tempo, sfruttare il potenziale rinnovabile dell’Africa permetterebbe all’Europa di aumentare l’importazione di energia pulita e ottemperare ai suoi obiettivi di mitigazione delle emissioni, mentre all’Africa consentirebbe di attrarre investimenti. Tuttavia, pensare a uno sviluppo net-zero del continente africano è un’idea affascinante quanto in opposizione a necessità di natura politica ed economica. Pertanto, vincolare così strettamente i finanziamenti europei a progetti di sviluppo ambientale, sociale e politico potrebbe rivelarsi un limite per le azioni dell’UE come attore unitario in Africa. Altri Stati e multinazionali che offrono sostegno economico di varia natura con meno condizioni ambientali o umanitarie sembrano andare maggiormente incontro ad alcune necessità politiche degli attori africani. La possibilità per l’UE di riposizionarsi come partner strategico in materia energetica sembra essere meno attrattiva per gli Attori africani di quanto non lo sia per Bruxelles. Tanto l’UE quanto i singoli Stati membri dovrebbero quindi prestare maggiore attenzione all’agency dei Paesi africani, per liberarsi di alcuni retaggi post-coloniali che continuano a condizionare l’approccio verso l’Africa. Così facendo, si faciliterebbe l’instaurarsi di un dialogo paritario tra attori europei e attori africani. E questo rafforzerebbe la presenza europea in Africa secondo modalità nuove e decolonizzate.