Le teorie delle relazioni internazionali (IR theory) sono state caratterizzate, sin dagli albori, per un approccio marcatamente eurocentrico. Solo recentemente, la corrente definita Global IR ha messo in luce l’importanza delle prospettive non-eurocentriche nello studio delle relazioni internazionali, enfatizzando gli approcci della scuola cinese, ma anche e più generalmente diffondendo le teorie originatesi nel cosiddetto Global South. Tra queste, spicca per originalità l’applicazione della filosofia africana dell’ubuntu allo studio delle relazioni internazionali, la quale può definirsi come un approccio autenticamente afrocentrico a questa disciplina.
La filosofia dell’ubuntu
La necessità di trovare vie africane allo studio delle relazioni internazionali si inserisce in un più ampio contesto volto a identificare teorie afrocentriche per implementare una conoscenza autoctona che possa meglio relazionarsi con le sfide che interessano il continente. L’applicazione di paradigmi di natura eurocentrica, infatti, si è risolta spesso e volentieri in un fallimento, mettendo in luce l’inadeguatezza di tali approcci per il continente africano. Da qui l’importanza di guardare alla cultura africana, intesa in senso ampio come un modo di interpretare la realtà, la storia e i valori per sviluppare paradigmi afrocentrici per lo studio delle IR. La filosofia dell’ubuntu, originaria dell’Africa meridionale ma conosciuta e condivisa anche in alcune culture delle aree orientali e centrali del continente, trae ispirazione dall’interpretazione bantu della realtà. La parola “ubuntu” è composta dalla radice “ntu”, comune a “bantu”, che significa “persona”; il prefisso “ubu”, invece, dà l’idea di una condizione in divenire, suggerendo un significato più ampio di “trasformazione in/ divenire una persona”. Un processo dunque continuo, dove l’individuo si trasforma in persona attraverso i legami con la comunità e il cosmo/ambiente che lo circonda. Questa armonia tra individuo, comunità e ambiente si rifà alla tradizione Nguni ed è connessa alla figura di uMvelinqanqi, il creatore (Doma, 2021). Come legato alla figura di uMvelinqanqi, l’essere umano è parte stessa della sua sacralità. Da qui, l’importanza di trattare ogni essere umano in modo egualitario e con dignità, essendo esso emanazione diretta del sacro. La filosofia dell’ubuntu si pone alla base di questo estremo rispetto per la “persona” dell’altro. L’ubuntu, infatti, descrive l’importanza della comunità come essenziale attraverso l’aforisma: “umuntu ngumuntu ngabantu” (in lingua Nguni/Ndbele), ovvero “una persona è una persona attraverso le altre persone” o, più comunemente, “io sono perché noi siamo”. La filosofia, dunque, si distacca immediatamente dagli approcci di natura eurocentrica focalizzati sul singolo individuo, mettendo l’accento sul ruolo della comunità.
L’efficacia di un simile approccio alle questioni di natura politica e sociale fu dimostrata durante la delicatissima fase di transizione dal regime di apartheid alla democrazia che coinvolse i cittadini del Sud Africa negli anni Novanta. La Commissione di verità e riconciliazione, presieduta dall’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, fondava la sua legittimità proprio sulla filosofia ubuntu, considerando l’espiazione dei peccati a livello di comunità come la migliore medicina per la martoriata società sudafricana. Alla base della Commissione, infatti, risiedeva l’idea di riconoscere l’umanità (e, di conseguenza, le colpe) dell’altro, indipendentemente dal colore della pelle, per dar vita a un esercizio di catarsi collettiva volto a redimere i peccati commessi durante l’apartheid sia da bianchi che dai neri attraverso il perdono, così da iniziare un nuovo percorso democratico.
Ubuntu e teoria delle relazioni internazionali
L’ubuntu può essere utile per lo studio delle IR in quanto fornisce una visione alternativa della comunità internazionale, soprattutto in termini di risoluzione dei conflitti e costruzione di un nuovo rapporto con l’ambiente che ci circonda. Da un punto di vista epistemologico, l’ubuntu può fornire gli strumenti necessari per far convivere diverse scuole di pensiero e paradigmi all’interno di una concezione più armoniosa della produzione di conoscenza, evitando di evidenziare le differenze di pensiero e prospettiva sulle maggiori problematiche del nostro tempo descrivendole come una fonte di tensione e conflitto, ma anzi facendo emergere l’importanza della pluralità e del rispetto reciproco nell’individuazione delle migliori soluzioni possibili per far fronte a tali tematiche. Come ha notato Doma (2021), l’ubuntu può in questo senso aiutare a ridefinire i rapporti conflittuali sulla produzione della conoscenza, i quali si sono instaurati sin dall’epoca coloniale tra Occidente e Oriente/Global South, così come teorizzato da Edward Said nel suo saggio “Orientalismo” (1978). L’ubuntu fornisce la prospettiva per non guardare all’altro in modo concorrenziale, ma riconoscendone il valore e l’importanza come parte di una medesima comunità internazionale, rispettando le differenze.
Guardando alla risoluzione dei conflitti, l’ubuntu ha già dimostrato di poter avere un importante ruolo durante la transizione dall’apartheid alla democrazia in Sud Africa. Ma tale filosofia non pretende di lasciare impuniti crimini contro l’umanità o crimini di guerra, anzi. Durante i conflitti, l’essere umano perde parte della sua umanità in quanto viola la sacralità dell’altro. Per rimediare a questo, l’ubuntu suggerisce di porre in essere una complessa diplomazia per ricercare, anche attraverso lo strumento del perdono, l’umanità gli uni negli altri, senza però escludere forme di “riparamento” di qualsivoglia tipo, ovviamente secondo gli standard del diritto internazionale comunemente riconosciuti.
Anche in merito alla necessità di costruire un nuovo rapporto tra la comunità nel suo complesso e l’ambiente che ci circonda, l’ubuntu può fornire spunti interessanti. Riconoscersi nella sacralità del “vivente”, significa anche riconoscersi nell’ambiente che ci ospita. Il fallimento nel gestire e prendersi cura dell’ambiente, infatti, può risultare in tensioni e conflitti tra la comunità, portando a un disequilibrio generale contrario alle basi filosofiche dell’ubuntu. La malagestione delle risorse naturali dimostra un’incapacità da parte dell’essere umano di riconoscere sé stesso e la propria umanità come parte integrante dell’ambiente, risultando in una disarmonia generale che crea instabilità e disordine.
Conclusione
Come sottolineato in questa brevissima disamina, la filosofia ubuntu può fornire spunti estremamente interessanti allo studio delle relazioni internazionali per comprendere un approccio di natura afrocentrica all’interno dell’arena dei paradigmi finora incentrati su una visione eurocentrica della comunità internazionale e delle sue problematiche. La capacità di riconoscere la pluralità delle forme di conoscenza applicabili nel contesto delle IR risulta, inoltre, fondamentale per scardinare un altro tassello ereditato dal periodo coloniale, ovvero l’idea di una conoscenza possibile e razionale solo se prodotta in Occidente. Se la globalizzazione tende ad avvicinare contesti estremamente diversi tra loro e ci pone in condizione di poterci arricchire vicendevolmente attraverso lo scambio di conoscenza, l’ubuntu può suggerire un interessante approccio afrocentrico in tal senso.
Tale approccio ci insegna che la nostra umanità ci connette strettamente gli uni con gli altri, nonché con l’ambiente che ci circonda, ricordandoci, in un momento quanto mai teso e instabile, come il nostro destino sia comune e come sia necessario cooperare e trovare soluzioni originali per affrontare le complesse sfide che si presentano dinnanzi a noi.