Il 15 aprile scorso, nel periodo sacro del Ramadan, il Sudan è piombato di nuovo nel caos. La rivalità tra i due signori della guerra che si contendono il potere – il presidente Abdel Fattah Burhan e il suo vice, il generale Mohamed Hamdan Dagalo comandante delle Rsf (forze di supporto rapido) – è sfociata in uno scontro armato che sta devastando il Paese.
Le cause del conflitto
Il conflitto in corso è l’atto finale della resa dei conti tra i due uomini forti del regime sudanese – i generali Abdel Fattah Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo – iniziata già un anno fa dopo il colpo di stato del 2021 voluto da entrambi e finalizzato alla deposizione del consiglio sovrano, organo collettivo civile-militare di transizione istituito nel 2019 dopo la caduta del regime di Omar Al Bashir al potere dal 1989.
L’equilibrio precario che teneva in piedi la convivenza di Dagalo e Al Burhan si è definitivamente infranto verso la fine del 2022, quando il presidente Al Burhan si è mostrato favorevole ad avviare un processo di democratizzazione del Paese firmando un primo accordo quadro all’interno del quale era previsto anche lo smantellamento dei paramilitari delle Rsf che sarebbero stati reintegrati definitivamente nell’esercito governativo.
L’intesa era poi saltata proprio perché il generale Dagalo per non vedersi privato del suo braccio armato, aveva chiesto un periodo di transizione di dieci anni prima dello scioglimento definitivo delle Rsf, invece che i due anni previsti dagli accordi.
Per le parti coinvolte i combattimenti di questi giorni rappresentano un vero e proprio scontro esistenziale: in particolare i paramilitari delle Rsf – evoluzione dei janjaweed (i diavoli a cavallo) che hanno combattuto nella rivolta del Darfour nei primi anni 2000 – mirano a mantenere saldo il controllo del settore minerario nazionale di cui il generale Dagalo è uno dei leader incontrastati con la sua compagnia al-junaid che dal 2019 gestisce i proventi dell’industria estrattiva nazionale.
La mano lunga di Mosca tra interessi economici e visione strategica
In questa situazione di disordine generale Mosca svolge un ruolo tutt’altro che secondario. Il Cremlino ha sempre sostenuto l’esercito sudanese attraverso la vendita delle armi, ma è soltanto nel 2017 che le relazioni tra le due nazioni hanno raggiunto un nuovo livello di cooperazione. Nel novembre di quell’anno, l’allora presidente Omar Al Bashir – spinto nelle braccia del Cremlino dall’isolamento internazionale e delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti – durante una visita a Sochi aveva affermato che il Sudan poteva rappresentare per Mosca la “chiave per l’Africaˮ.
Proprio in quell’occasione i due Paesi avevano annunciato un piano per la realizzazione di una base navale russa nel Mar Rosso a Port Sudan, siglando accordi commerciali e per la sicurezza grazie ai quali il governo russo è riuscito a penetrare nell’economia sudanese sfruttando la partnership con soggetti vicini alle Rsf e all’esercito. Tali accordi vedevano coinvolte diverse aziende legate al fondatore del gruppo Wagner – Yevgeny Prigozhin – tra cui la divisione sudanese della M Invest e la Meroe Gold.
Nel 2019 le relazioni tra Mosca e Kartoum si sono intensificate ulteriormente – anche grazie all’accresciuto potere contrattuale delle Rsf derivante dal controllo dell’industria mineraria – tanto che il ministero degli Affari esteri russo ha confermato la presenza in Sudan di mercenari del gruppo Wagner impegnati ad addestrare le forze di polizia e l’esercito in risposta alle rivolte antigovernative.
Le preferenze del Cremlino per le partnership autoritarie
Con la caduta del regime di Al Bashir, la presenza di una leadership civile nel governo di transizione aveva rassicurato la comunità internazionale sull’esito di una transizione democratica del potere, portando alla sospensione delle sanzioni statunitensi e alla riduzione del debito internazionale. Nonostante questo cambio di scenario, però, Mosca ha continuato a mantenere il proprio ruolo in Sudan anche dopo il 2019 mentre le aziende minerarie russe e il gruppo Wagner hanno sostanzialmente ignorato la componente civile del governo – allineata con gli Stati Uniti e con l’Europa – rafforzando i legami con gli esponenti più in vista delle Rsf tra i quali figurava anche Dagalo che nel 2022, alla vigilia dell’invasione russa dell’Ucraina, si trovava proprio a Mosca.
Nel 2021, quando il governo di transizione ha annunciato di voler revisionare gli accordi militari firmati da Al Bashir rimettendo in discussione il progetto della base navale di Port Sudan, il Cremlino – attraverso i mercenari del gruppo Wagner – ha cercato in tutti i modi di estromettere la leadership civile dal governo sudanese sia confidando nella copertura politica dell’ala militare che adoperandosi in campagne di disinformazione finalizzate a minare la stabilità interna del Paese. Le tensioni di quei mesi sono poi sfociate nel colpo di stato del 25 ottobre 2021 messo a segno da Al Burhan e inizialmente appoggiato anche dal generale Dagalo.
Pertanto, se è vero che le cause del conflitto esploso in Sudan sono sostanzialmente attribuibili a questioni di politica interna (una su tutte è lo scioglimento dei reparti paramilitari delle Rsf), non si può non riconoscere in Mosca il principale sponsor, nonché facilitatore autocratico, del tentato golpe messo in atto dal generale Dagalo.
Gli scontri in Sudan di questi giorni dimostrano come dalle parti del Cremlino la strategia sia sempre la stessa: stringere accordi di partnership con governi autoritari per attrarli nella propria sfera d’influenza allontanandoli allo stesso tempo dagli Stati Uniti, per i quali la vittoria dei berretti rossi di Dagalo rappresenterebbe, invece, un durissimo colpo soprattutto alla luce dei recenti rapporti di collaborazione allacciati da Washington con la giunta di Al Burhan che hanno portato nell’agosto scorso alla nomina di John Godfrey come primo ambasciatore Usa in Sudan dopo 25 anni.