La democratizzazione delle istituzioni multilaterali è uno dei temi ricorrenti dell’agenda politica internazionale dell’Africa (nelle vesti di attore continentale). La questione cardine di questo obiettivo resta sicuramente la riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; questione che tuttora rimane aperta ed impantanata in un negoziato privo di significativi sviluppi. Il conflitto russo-ucraino ha rimesso in evidenza i limiti d’azione dell’ONU, aprendo così un nuovo capitolo del dibattito sulla riforma.
Articolo precedentemente pubblicato nel primo numero della newsletter “Prisma Africano”. Iscriviti qui.
L’Africa e la riforma delle Nazioni Unite
Africa e riforma delle Nazioni Unite sono legati da una peculiare relazione: laddove infatti il tema è oggetto di profonde divergenze tra paesi all’interno del medesimo schieramento regionale e/0 continentale, il Gruppo Africano alle Nazioni Unite è l’unico ad avere una posizione comune e unanimemente condivisa in materia. Il problema della giusta rappresentanza dell’Africa all’interno delle istituzioni multilaterali ha sempre accompagnato l’azione dei governi africani negli affari internazionali sin dalla prima decolonizzazione. Unità e determinazione – senza dimenticare la sua numerosità – rendono il Gruppo Africano un interlocutore imprescindibile per qualsiasi proposta di riforma, con tutte le difficoltà annesse. Infatti, nello spettro delle possibili modalità di riforma, il Gruppo Africano incarna una corrente orientata alla riforma strutturale, e la sua posizione è contenuta nella “Dichiarazione di Sirte sulla Riforma delle Nazioni Unite” adottata dall’Unione Africana nel luglio 2005. In essa vengono invocati «i diritti legittimi dell’Africa ad una giusta ed equa rappresentanza geografica» nel sistema delle Nazioni Unite. Tra le altre richieste, spicca quella relativa alla necessità di espandere la composizione del Consiglio di Sicurezza al fine di garantire l’adeguata rappresentanza all’Africa secondo la seguente allocazione: un totale di 7 seggi destinati ai paesi africani, 2 dei quali assegnati in qualità di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (con tutti i privilegi annessi, veto power compreso).
Si tratta di aspirazioni estremamente ambiziose, che riflettono la percezione di un forte senso di marginalizzazione negli affari internazionali, soprattutto di fronte all’evidenza di come molte questioni legate a sviluppo e sicurezza siano legate all’Africa. Si tratta di un impegno che viene ribadito con assiduità e in modo trasversale: in occasione dell’elezione del Mozambico come prossimo membro non permanente del Consiglio di Sicurezza (entrerà in carica a partire da gennaio 2023 al posto dell’uscente Kenya), il presidente mozambicano Filipe Nyusi ha evidenziato che «l’agenda del Consiglio di Sicurezza è occupata al 60% da problemi africani» e che farà tutto il possibile per promuovere l’avanzamento del processo di riforma dell’ONU durante il suo mandato.
L’invasione russa dell’Ucraina e le conseguenze sul processo riformatore
Il dibattito sulla riforma delle Nazioni Unite è ormai diventato oggetto di una negoziazione di fatto “istituzionalizzata” (che dura da circa 30 anni ormai). Nel corso del 2022, tuttavia, si è assistito ad una ripresa di interesse per il tema, stimolato dalle conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina. La situazione di deadlock imposta dalla Russia all’interno del Consiglio di Sicurezza ha inevitabilmente – e nuovamente – richiamato all’attenzione la necessità di un superamento, formale o sostanziale che sia, dell’attuale sistema di funzionamento dell’ONU.
Per il Gruppo Africano alle Nazione Unite, la questione assume una rilevanza particolare: infatti, se da una parte il conflitto ha aggravato le condizioni di alcune crisi nel continente africano – e in certi casi aggiungendone di nuove – dall’altra parte ha aperto anche a spiragli per nuove possibilità nella scena internazionale. Una di queste è sicuramente rappresentata dal rafforzamento della posizione negoziale del Gruppo Africano in tema di riforma dell’ONU.
In questo caso la questione si inserisce all’interno dello scramble per l’influenza generato dal contesto di competizione tra USA, Russia (e Cina). Se queste grandi potenze hanno sempre mantenuto un basso profilo rispetto al tema della riforma dell’ONU, la recente presa di posizione di Washington rappresenta un elemento di novità particolarmente interessante. In occasione della 77esima Assemblea Generale dell’ONU, il Presidente Biden ha espresso in modo chiaro la volontà di superare l’attuale sistema: «credo anche che sia arrivato il momento per questa istituzione di diventare più inclusiva affinché possa rispondere meglio alle necessità del mondo di oggi. I membri del Consiglio di Sicurezza, inclusi gli USA, dovrebbero consistentemente sostenere e difendere la carta ONU e astenersi dall’utilizzo del veto, salvo rare, straordinarie occasioni, al fine di assicurare la credibilità e l’efficacia del Consiglio. È anche per questa ragione che gli USA sostengono l’aumento del numero dei rappresentanti permanenti e non-permanenti del Consiglio. Questo include la disponibilità di seggi permanenti per quelle nazioni che abbiamo a lungo supportato e altrettanti per i paesi di Africa, America Latina e Caraibi».
Africa, USA, ONU tra limiti e nuove possibilità
L’apertura statunitense ad una riforma della sicurezza collettiva che accolga le richieste di inclusione avanzate dall’Africa (e dal Global South in generale) molto difficilmente può giungere ad uno sblocco dell’impasse nel breve-medio termine.
La prima ovvia ragione riguarda la fattibilità pratica di soddisfare le condizioni di riforma strutturale della Carta ONU. La modifica del testo – necessaria se si intende modificare la composizione del Consiglio – richiederebbe l’adozione con una maggioranza di almeno 2/3 dell’Assemblea Generale e la successiva ratifica da parte di almeno 2/3 delle assemblee nazionale dei membri, includendo tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Come immaginabile, il procedimento sarebbe di difficile realizzazione in contesti normali, ed appare ulteriormente complicato nella circostanza attuale.
In secondo luogo, un altro aspetto da sottolineare è intrinseco nella posizione espressa dal Gruppo Africano stesso. Sebbene formalmente esso converga su una precisa idea di riforma, è lecito interrogarsi su alcuni aspetti pratici non adeguatamente affrontati come, ad esempio, la scelta dei criteri per l’identificazione di quei paesi africani chiamati a ricoprire il ruolo di membri permanenti. Anche se è vero che la letteratura accademica e il “senso comune” spesso individuano Egitto, Nigeria e Sudafrica come i candidati più plausibili, è altrettanto vero che tale prospettiva deve rendere conto alle esigenze della realpolitik attraverso l’identificazione un sistema di negoziazione interno all’Africa per giungere a tale decisione, visto che è pacifico assumere che nessuno dei tre potenziali candidati menzionati sarebbe mai accettato incondizionatamente, anzi.
Infine, la serietà dell’impegno degli USA. In che misura, oltre alle necessità di circostanza imposte dalla guerra in Ucraina gli USA sono effettivamente impegnati ed interessati ad una riforma che vada incontro alle aspettative del Gruppo Africano? Non sarebbe la prima volta che il riconoscimento dell’esigenza di riforma il Consiglio di Sicurezza venga usato più come mezzo di comunicazione piuttosto che come vero e proprio indirizzo politico, in quanto esiste una sorta di cultura istituzionale che spinge tutti gli attori a mostrarsi pubblicamente ben disposti verso la questione della riforma, salvo perseguire i propri obiettivi dietro le quinte (Winther, 2020). La dichiarazione di Biden, pur dando un positivo segnale di apertura, potrebbe non essere altro che uno strumento di soft power orientato alla ricerca di alleanze e/o contrasto dell’influenza russa: essa infatti viene presentata in termini molto vaghi, ma soprattutto non è accompagnata da una analoga posizione espressa dall’Europa, che mantiene un atteggiamento di cautela (data anche la forte divisione al suo interno a tal riguardo).
Nonostante i limiti fin qui espressi, esistono ancora dei margini d’azione molto invitanti per i governi africani. L’impraticabilità di agire sul versante della riforma delle Nazioni Unite non preclude le possibilità riguardo la democratizzazione nelle altre arene internazionali, come G20, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale; pertanto, dovrebbero cogliere con favore il momento di apertura proveniente dagli USA. Viceversa, questi ultimi potrebbero beneficiare di un ritorno molto positivo in termini di sostegno politico e miglioramento delle relazioni, al quale anche l’Europa dovrebbe affiancarsi. Ad esempio, sarebbe già un successo se l’UA fosse riconosciuta come membro effettivo del G20; un obiettivo che il Presidente Biden si è impegnato ad assicurare nel corso del summit USA-Africa tenutosi nei giorni 13-15 dicembre. La speranza, ovviamente, è che questa dichiarazione non rimanga un proclama a vuoto.