Diversi studi sull’Africa contemporanea si sono soffermati sulle fragilità dello Stato-nazione, elaborando la categoria di “failed states” per quei paesi che non riescono a soddisfare i requisiti dell’impostazione statale vestfaliana. Un’interpretazione stato-centrica delle dinamiche che contraddistinguono il continente, però, rischia di offuscare le reali dinamiche che alimentano conflitti e crisi, incoraggiando un’analisi contraddistinta da una mentalità ancora largamente coloniale.
Lo stato vestfaliano e l’Africa
Sin dalle guerre d’indipendenza, il continente africano ha visto l’emergere di numerosi attori non-statali capaci di controllare porzioni significative di territorio. Il tutto avviene grazie al controllo, da parte di questi attori, di strumenti militari, politici ed economici che rendono il potere centrale incapace di esercitare le funzioni elementari dello Stato-nazione, come il monopolio dell’uso della forza.
In Europa, la nascita dello Stato-nazione si fa risalire alla pace di Vestfalia del 1648 che pose fine alle atrocità della Guerra dei Trent’anni (1618-1648). Tra gli elementi che contraddistinguevano questa impostazione vi erano la centralizzazione del potere e la nascita di identità nazionali rigidamente definite e inserite all’interno di territori delimitati da limes invalicabili. Tuttavia, più a Sud, il continente africano viveva esperienze totalmente diverse in relazione all’organizzazione politico-territoriale e alla definizione delle identità. I vari gruppi etnici, ad esempio, si diversificavano notevolmente per numero e complessità, tanto da poter parlare di vere e proprie “etno-nazioni”, come nel caso degli Ovimbundu angolani. Inoltre, la centralità del potere statale, ancora oggi tallone d’Achille di molti Stati, era di fatto assente, con le entità che esercitavano le loro prerogative in modo decentralizzato. Il colonialismo ha successivamente importato un’impostazione stato-centrica, lasciandola in eredità alle élites post-indipendenza, contribuendo a rendere l’Africa un continente composto da “nazioni” ingabbiate in confini artificiali e dilaniate da divisioni etniche, linguistiche e religiose.
Virtus unita fortior?: la fragilità dell’Angola contemporanea
La guerra di liberazione in Angola prese avvio nel 1961, in ritardo rispetto al resto del continente data l’irriducibilità del colonialismo portoghese. Ai primi due movimenti di liberazione, ovvero il Movimento popular de libertação de Angola (MPLA) e il Frente Nacional de Libertação de Angola (FNLA), si aggiunse nel 1966 l’União Nacional para a Independência total de Angola (UNITA). Il caso angolano viene solitamente analizzato nell’ottica della Guerra fredda, dato il ruolo che hanno avuto numerosi attori esterni, come Cuba e il Sud Africa. L’UNITA, ad esempio, godette di un iniziale supporto da parte della Cina, salvo poi caratterizzarsi per essere uno strumento della politica di destabilizzazione sudafricana nella regione. I negoziati per l’indipendenza, iniziati nel 1975 in seguito alla Rivoluzione dei garofani in Portogallo che spodestò dal potere Marcelo Caetano, portarono al potere il MPLA, ma le tensioni tra i vari movimenti non si sopirono. Quando nel 1975 il Sud Africa invase l’Angola, la guerra civile nel paese si internazionalizzò con l’intervento di truppe cubane in sostegno al MPLA. Solo nel 1988 Cuba, Angola e Sud Africa firmarono un accordo che prevedeva il ritiro delle truppe cubane dal territorio angolano e la fine dell’occupazione sudafricana della Namibia (la quale raggiunse l’indipendenza nel 1990), ma le elezioni in Angola, previste per il 1991, fallirono e la guerra civile nel paese continuò sino al 2002, quando Jonas Savimbi, leader dell’UNITA, venne ucciso. Questa incapacità di trovare una soluzione alle tensioni tra i movimenti di liberazione può essere meglio compresa attraverso prospettive sub-nazionali e decolonizzate.
I movimenti di liberazione angolani da una prospettiva sub-nazionale
L’Angola è un territorio sede di numerosi gruppi etno-linguistici. I principali sono i Bacongo, gli Mbundu e gli OvimBundu. I Bacongo, un tempo parte del Regno del Congo, hanno subito gli effetti nefasti della KongoKonferenz di Berlino (1884-1885), vedendo smembrato il territorio del Regno in tre entità che oggi si presentano come il Congo-Brazzaville, la Repubblica Democratica del Congo e, appunto, l’Angola. I Bacongo, però, hanno sempre guardato a Kinshasa più che a Luanda come polo identitario di riferimento. Il gruppo più numeroso è, invece, quello degli Ovimbundu, tanto che vengono definiti una vera e propria nazione. Come sottolineato, i tre movimenti di liberazione non riuscirono mai a definire un fronte comune e la ragione principale dietro a questa incapacità di far valere un interesse propriamente “nazionale” risiede nel fatto che tale “nazione” di fatto non esisteva. Il MPLA, in particolare, riuscì a esercitare una notevole influenza solo sui Kimbundu (altro gruppo etnico rilevante). Tra le aspirazioni del FLNA, invece, c’era la volontà di costituire una sorta di riproposizione dell’antico Regno del Congo nella parte settentrionale dell’Angola, riuscendo quindi ad attrare soprattutto i Bacongo. L’UNITA, infine, nacque come principale esponente degli Ovimbundu, i quali credevano di dover avere un proprio movimento di liberazione per controbilanciare gli altri. Di conseguenza, emerge come questi attori, sebbene spesso analizzati come movimenti di liberazione sorti per dar vita a uno Stato-nazione angolano, avessero in realtà una legittimazione sub-nazionale. La fragilità cronica della pace in Angola può dunque essere analizzata anche sulla base di un’immediata tensione tra Stato-nazione e identità etnica che ha minato alla base le prospettive del nuovo soggetto sin dalle lotte per l’indipendenza.
L’UNITA, ad esempio, ha tentato di resistere a uno Stato centralizzato guidato da un gruppo etnico differente che rischiava di limitare le aspirazioni degli Ovimbundu. In quest’ottica, i vari negoziati di pace non portarono i risultati sperati proprio perché le parti in gioco avevano interessi particolarmente divergenti. Mentre il MPLA proponeva un’incorporazione dell’UNITA, quest’ultima propendeva maggiormente per una devoluzione del potere e di parte del territorio agli Ovimbundu. Queste tensioni contribuirono inoltre a far naufragare il processo elettorale guidato dagli attori esterni. Sempre guardando a una prospettiva sub-nazionale, durante gli anni Novanta, quando l’UNITA cominciò a percepire i primi sintomi di un declino, il presidente congolese Mobutu scese in suo soccorso. Sebbene Mobutu sostenne inizialmente il FLNA dati i legami tra i Bacongo e i congolesi, il dittatore non dimenticò mai come il MPLA fornì supporto e rifugio ai ribelli del Katanga, i quali riuscirono a penetrare in Zaire nel 1977 e nel 1978 proprio dal territorio angolano.
Conclusioni
Come è emerso, la dimensione sub-nazionale può aiutare a capire più ampiamente le complessità del continente. L’Angola è un esempio paradigmatico di come la necessità di comprendere fattori come l’identità etnica quali forme di resistenza all’impostazione stato-centrica di derivazione europea sia oggi più importante che mai. Studiare l’Africa con uno sguardo “afrocentrico” potrebbe di conseguenza illustrare in modo originale e adeguato le complesse dinamiche dietro alle numerose crisi che minano la sicurezza nel continente.