L’accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti (EAU) è un accordo geopolitico. L’Iran è il centro di tutto, la questione palestinese un po’ meno. La Turchia la potenza da contenere.
La dichiarazione congiunta firmata tra Emirati Arabi Uniti e Israele lo scorso 13 agosto 2020 segna un cambio di rotta nell’evoluzione degli equilibri geopolitici del Medio Oriente, confermando de facto una situazione in transizione già da molto tempo.
Difficile credere che questo accordo troverà una soluzione alla questione palestinese che è soltanto l’oggetto di un accordo bilaterale (vincolate soltanto per i due stati firmatari) per stipulare un’alleanza con ben altri intenti da entrambe le parti.
Non solo interessi economici ma veri e propri interessi geopolitici che coinvolgono un’area non più limitata soltanto al Medio Oriente stricto sensu ma al cosiddetto “Mediterraneo Allargato” che si estende fino al Golfo Persico.
Abu Dhabi considera una priorità politica garantire la propria sicurezza nazionale, dettata dalla posizione geografica nel Golfo Persico. La crescente tensione tra Israele e USA con l’Iran rischia di coinvolgere obtorto collo direttamente gli Emirati Arabi Uniti in uno scontro militare con quest’ultimo. L’alleanza con Israele vuole scongiurare una eventuale risoluzione manu militari della questione iraniana, ponendosi come mediatore nel tentativo di negoziare un nuovo modus vivendi tra Teheran, Washington e Tel Aviv. Infatti la politica estera degli EAU ha l’obiettivo di integrare l’ex impero persiano nel contesto regionale, cooperando addirittura in alcuni conflitti come in Yemen (sono stati gli Emirati che recentemente hanno cercato di stipulare un accordo di pace con gli huthi sostenuti dall’Iran) consapevole che l’appoggio dell’hard power di Teheran può essere molto utile per potenziare il proprio ruolo geopolitico, garantire la stabilità e la sopravvivenza della monarchia nel Golfo e l’apertura dello Stretto di Hormuz, fondamentale per l’approvvigionamento.
Ma l’accordo ha per Mohammed Bin Zayed, principe ereditario degli emirati, anche una funzione anti-saudita oltre che anti-turca (Ankara è comunque uno dei principali nemici di Abu Dhabi non solo per l’appoggio alla Fratellanza Musulmana anti-monarchica ma anche perché è un grande competitor degli EAU in quasi tutti gli scenari di proxy war della regione dalla Siria alla Libia).
Le relazioni tra. EAU e Arabia Saudita si sono progressivamente deteriorate negli ultimi anni, non solamente per le modalità con cui Riyadh ha gestito la guerra in Yemen ma anche per l’assertività nei confronti dell’Iran. Abu Dhabi vuole controbilanciare Riyadh per impedire che, in una eventuale conflitto contro l’Iran, venga considerato uno stato cuscinetto da sacrificare “sull’altare della realpolitik”. Promuovendosi “protettrice” della causa palestinese, Abu Dhabi ambisce ad acquisire un ruolo preminente all’interno del GCC e del mondo arabo, sfruttando anche le negligenze saudite in materia di difesa nazionale e politica estera.
Dall’altro lato, Israele considera questa normalizzazione dei rapporti come un atout per “congelare” l’annessione della Cisgiordania ma anche come un modo per costituire una grande alleanza contro la Turchia e l’Iran. La dichiarazione congiunta con gli E.A.U. sembra essere un vecchio accordo di stampo ottocentesco che vuole garantire il cosiddetto balance of power della regione.
Tel Aviv è cosciente che Ankara sta diventando sempre di più la minaccia principale alla sicurezza israeliana proprio per le sue ambizioni nel Mar Mediterraneo Orientale che risultano difficili da contrastare. Il regime israeliano vuole e spera che questo accordo sia il primo di una serie che portino ad un riconoscimento ufficiale di Israele come stato-potenza regionale del Medio Oriente da parte di tutto il mondo arabo in modo da creare una grande alleanza in funzione anti-turca che coinvolga i paesi di tradizione storica turcofoba (Egitto per esempio).
Per quanto riguarda l’Iran, Israele intraprende già da tempo una guerra per procura contro gli alleati di Teheran nella regione, Hezbollah in Libano e le milizie filo-iraniane nella Siria meridionale, onde indebolire la sfera di influenza persiana nel Siraq ma senza intraprendere uno scontro armato diretto che potrebbe avere delle conseguenze imprevedibili. In questo esiste una convergenza di interessi con gli EAU nel tentativo di creare un link con l’ex impero persiano che porti “ad una pacifica coesistenza” evitando una escalation.
Il problema per Israele è che il dossier iraniano è un rebus di difficile interpretazione la cui visione strategica di lungo periodo non risulta essere molto chiara e definita. Il pericolo è che l’opposizione sfrenata israeliana al JCPOA e al riconoscimento della Persia come potenza dell’Asia Minore avvicini sempre di più l’Iran e la Turchia in una rinnovata alleanza per evitare che Teheran e Ankara vengano messe l’una contro l’altra (la vecchia logica del divide et impera) onde impedirne l’ascesa regionale, spingendo per la “mutual destruction” dei due ex imperi.
Un eventuale asse Teheran-Ankara creerebbe un “gigante tellurico” così forte e con una proiezione strategica tale che la coalizione israelo-emiratina potrebbe non essere sufficiente ad un suo contenimento, neanche coinvolgendo tutti gli Stati arabi della regione.
In conclusione, sebbene questo accordo ha avuto il merito di porre fine al boicottaggio commerciale tra i due paesi e ha inaugurato il primo volo diretto tra Israele e EAU, l’alleanza risulta essere ancora tattica piuttosto che strategica e quindi friabile perché ci sono ancora molti “tasselli” da chiarire: dalla questione palestinese all’inserimento di altri Stati arabi in questo accordo, al ruolo degli USA fino all’ossessione iraniana. Se entrambi i Paesi non riusciranno a definire con precisione i propri ruoli, obbiettivi e meriti, il risultato sarà un peggioramento della situazione regionale invece che un suo miglioramento.
Siamo in presenza di un’alleanza tutt’altro che consolidata.
Marco Corno
Geopolitica.info