Il 10 giugno riprendono i negoziati di Vienna. Tra i Paesi più interessati alle vicende persiane ci sono certamente i Paesi del Golfo Persico e la Turchia.
I Paesi del Golfo sembrano essersi rassegnati alla rinascita dell’Accordo (Reuters), la cui approvazione è certamente un elemento di preoccupazione. Bisogna tuttavia sottolineare come, per l’Agenzia IRNA, un riavvicinamento fra le due parti (sebbene inevitabile) non porterebbe ad una riappacificazione automatica e risolutiva, ma costituirebbe una semplice piattaforma per permettere migliori strumenti di risoluzione delle problematiche. Ad esporre il concetto è la Professoressa S. Hunter dell’Università di Georgetown negli Stati Uniti. L’agenzia IRNA aggiunge che l’Iran è sempre stato favorevole a negoziazioni volte al miglioramento delle relazioni multilaterali. Quale motivo ha l’agenzia persiana di pubblicare un’intervista con un’Accademica statunitense che riconosce l’ineluttabilità di un accordo fra Iran e Paesi del Golfo sottolineandone però l’incompletezza? Certamente quello di far comprendere che Teheran sente di avere, a livello negoziale e nello specifico contesto del Golfo, il coltello dalla parte del manico. Perso l’appoggio di Trump e verificato l’approccio di Biden, che vuole la coesistenza di tutti gli attori regionali nella prospettiva del loro reciproco depotenziamento, i Paesi del Golfo hanno compreso di avere poco da chiedere e molto da dover concedere. Riappacificati con Israele, per il quale non rappresentano più una minaccia, sanno che gli Stati Uniti non possono che garantire all’Iran la maggiore libertà nel suo cortile di casa, ovvero proprio in quel Golfo Persico nel quale essi stessi insistono. Per non parlare delle evoluzioni del conflitto yemenita. Notizie preoccupanti anche data l’esistenza delle minoranze sciite nel Bahrein saudita e nel Bahrein insulare, quel Regno nel quale la popolazione è sciita al 90%. L’Iran punta moltissimo sulla ripresa delle sue attività di esportazione, che passano proprio per il Golfo, e sembra non nutrire dubbi in merito. Il 10 giugno l’Agenzia Shana pubblica in prima pagina la notizia della firma di un MoU fra la National Petrochemical Company (NPC) e l’Istituto tedesco per i Servizi di gestione della qualità (QMS), insieme alla notizia secondo la quale la Compagnia Nazionale Petrolifera Iraniana (NIOC) ha elaborato una “specifica pianificazione” per riprendere la produzione ai livelli pre-sanzioni in una settimana.
Altro attore estremamente interessato all’evoluzione delle questioni iraniane è la Turchia. “Gemello” dell’Iran per alcuni aspetti, alter-ego religioso e militare (il trattato di Qasr-i Shirin è esistito per questo, e spiega molto dell’equilibrio di potenza dei due Imperi) la Turchia ha storicamente trovato nell’Iran la sua potenza di contenimento verso Est. Succederà ancora, in Afghanistan, dopo il ritiro statunitense (e conseguente riduzione degli assetti NATO). La Turchia viene eletta a mediatore e riappacificatore in terra afgana per conto dell’Alleanza. E’ il desiderio di assegnare alla Turchia un ruolo maggiormente asiatico. Per quanto il ruolo della Turchia rimanga importantissimo in ogni settore di operatività dell’Alleanza, il messaggio dell’Amministrazione Biden è che il ruolo di ago della bilancia nel Mar Nero e nel Mediterraneo Orientale e, per la Turchia, ridimensionato. Le prime evidenze di questo sono state chiare con la questione dei 103 Ammiragli e della Convenzione di Montreaux. Nel Mediterraneo Orientale, gli Stati Uniti desiderano equilibrare l’espansionismo turco a favore della Grecia benedicendo una nuova alleanza che passa per Nicosia e Tel Aviv. Ankara viene quindi spinta in Asia, al fine di contenere l’Iran verso Est e di ritagliarsi un ruolo a Kabul.