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TematicheMedio Oriente e Nord Africa3 giugno: fra speranze e realismo

3 giugno: fra speranze e realismo

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Enrique Mora, inviato dell’Unione Europea, ha espresso fiducia sul fatto che il prossimo round negoziale potrebbe essere l’ultimo prima dell’adozione di un nuovo accordo (Reuters, 3 giugno). Altri negoziatori europei (Regno Unito, Francia, Germania, i cosiddetti E3) hanno invece sottolineato come le decisioni di maggiore difficoltà siano ancora irrisolte. Difficile non riconoscere una ripetizione di quanto avvenuto qualche giorno fa con le dichiarazioni del capo negoziatore iraniano Abbas Araqchi.

I prossimi incontri (nei quali gli Stati Uniti sono rappresentati indirettamente) avverranno il 10 giugno. 8 giorni dopo si svolgeranno le elezioni presidenziali, che molto probabilmente esprimeranno una Presidenza conservatrice (in conformità a quanto avvenuto col Parlamento).

Lo scorrere del tempo stressa entrambe le parti, ma è evidente come i negoziatori iraniani siano influenzati dall’evento-elezioni in modo profondamente diverso da quanto possano esserlo le loro controparti. Il fatto che i sette candidati alla Presidenza persiana siano profondamente conservatori, che fra questi vi sia il Capo della Magistratura Reisi e che due figure come l’ex Presidente del Parlamento Larijani e l’ex Vicepresidente Jahangiri, figure di raccordo con l’ambiente riformatore, siano stati squalificati per la competizione elettorale, indica moltissimo. I negoziatori persiani non attendono il nome del vincitore solo per sapere chi sarà il prossimo Presidente, ma per verificare le reazioni e le indicazioni che verranno dalla Guida.

Araqchi ha comunque specificato come il punto raggiunto dalle negoziazioni renda “non insolvibili” le differenze esistenti (IRNA, 3 giugno), sottolineando come i “punti fermi dell’Iran” sono comunque da prendere in considerazione.

Bisogna specificare come la posizione statunitense sia meno ottimistica di quella europea, e questo suggerisce che i “punti fermi” riguardino argomenti non necessariamente legati alle negoziazioni dell’oggi, ovvero lo sviluppo del programma sui missili balistici ed il mantenimento dei proxies nel Golfo e in Syraq. Più facile addivenire ad un ritiro dell’appoggio dato agli Houthi (cosa probabilmente già oggetto di negoziazioni con l’Arabia Saudita), molto meno ridurre l’appoggio ad Hezbollah. L’Amministrazione Biden aveva inaugurato la sua azione con molta convinzione del fatto che un’apertura avrebbe facilmente riportato al negoziato un Iran stremato dalle sanzioni ed ancora interessato allo spirito del 2015, ma le cose sono molto più complesse: il blocco politico dei conservatori sa bene che una reale apertura del Paese al resto del mondo (commercio, investimenti) potrebbe comportare la fine dell’era attuale, e segnare un punto di non ritorno. Non a caso, questi si sono sempre opposti in modo ferreo alla firma ed all’implementazione del JCPOA, giovando enormemente delle posizioni americane espresse sotto Trump che hanno spento tutte le spinte riformistiche proposte dall’Amministrazione Rouhani. Ora che si accingono ad esprimere la Presidenza, non hanno interesse a concedere troppo e desiderano vendere cara (pur negoziandola) la loro “non eccessiva opposizione” alle politiche americane nell’area per i prossimi anni.

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