Il 12 settembre 2001, la NATO invocò per la prima volta nella sua storia l’attivazione dell’articolo 5 a seguito degli attacchi contro gli Stati Uniti che ebbero luogo l’11 settembre. L’11 agosto 2003 la NATO fece il suo ingresso in Afghanistan. Il 12 luglio 2021 è terminato l’impegno delle truppe NATO. Un mese più tardi gran parte degli sforzi occidentali sono stati cancellati. La partecipazione NATO ha risposto ad un razionale strategico o ad una necessità contingente?
Il 12 settembre 2001, la NATO invocò per la prima volta nella sua storia l’attivazione dell’articolo 5 a seguito degli attacchi contro gli Stati Uniti che ebbero luogo l’11 settembre. Nel 2003 la missione International Security Assistance Force (ISAF), creata dalle Nazioni Unite per supportare il processo di ricostruzione del Paese e garantire la costituzione di forze di sicurezza locali, fu trasferita sotto egida NATO. L’Alleanza, considerata conclusa la missione ISAF nel 2014, lasciò in loco un contingente ridotto per addestrare le forze di sicurezza locali e supportare le istituzioni nell’ambito della missione Resolute Support fino al suo ritiro nell’agosto 2021 parallelo al ritiro delle forze statunitensi. L’intervento ventennale ha portato a esiti già superati, ma la partecipazione NATO ha risposto a un razionale strategico o una necessità contingente?
La NATO verso l’Afghanistan
Gli attacchi dell’11 settembre catapultarono, idealmente e fisicamente, le forze occidentali in Afghanistan per eliminare la presenza di Al-Qaeda nel Paese, rimuovere il regime Talebano ed evitare che il Paese fungesse da base per altre organizzazioni terroristiche. Sebbene gli attacchi terroristici fossero stati diretti agli Stati Uniti, l’articolo 5 dell’Alleanza e la conseguente attivazione fecero sì che l’attacco fosse collettivo e, dunque, necessitasse della difesa collettiva.
L’art. 5 del Patto Atlantico afferma che un “attacco armato” contro uno o più stati membri della NATO è da considerarsi come un attacco contro ogni componente dell’Alleanza. Dunque, ognuno di questi ha la facoltà – ai sensi dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite – di agire secondo il diritto all’autodifesa, decidere le azioni ritenute necessarie per “ristabilire e mantenere la sicurezza”, compreso “l’uso delle forze armate”. Peraltro, il punto 24 del Concetto Strategico 1999 stabiliva che possono considerarsi rischi per la sicurezza anche gli “atti di terrorismo, sabotaggio e crimine organizzato, e la interruzione del flusso di risorse vitali”. Infatti, come emerse già dal Concetto Strategico 1991, la fine del conflitto bipolare aveva ridotto sensibilmente i rischi per l’Alleanza di subire un’aggressione deliberata ma aveva scoperchiato il vaso dell’instabilità regionale ascrivibile a difficoltà politiche, sociali ed economiche.
Le prime fasi della Guerra al Terrore videro la mancanza di coesione tra gli Stati Uniti e il resto dell’Alleanza. Il peso degli interventi nei Balcani, le debolezze mostrate dall’Alleanza – in seguito al 1991 molti Paesi membri avevano ridotto il budget per la difesa condizionando la performance in teatro – la preoccupazione europea che il terrorismo non rappresentasse una minaccia globale, nonché gli effetti contraddittori di una globalizzazione sempre più edulcorata dal fenomeno della regionalizzazione per cui una regione non era strategicamente, diplomaticamente e politicamente interconnessa all’altra, la rinazionalizzazione dell’Europa e l’unilateralismo statunitense frammentarono la politica di sicurezza occidentale.
Nonostante il supporto politico della NATO fosse necessario per gli Stati Uniti in tutte le fasi dell’operazione lanciata il 7 ottobre 2001, il supporto militare o operativo dell’Alleanza fu subordinato agli obiettivi strategici di Washington. La capacità degli stati di contribuire alla missione sul fronte militare divenne il discrimine, così da evitare l’eventualità in cui la NATO si trasformasse in un’alleanza Potemkin, dove “gli Stati Uniti combattono per il 98%, gli inglesi il 2% e i giapponesi si muovono nei pressi delle isole Mauritius”. Il supporto internazionale fu riversato nella protezione dello spazio aereo statunitense con sistemi aviotrasportati di allarme e controllo sotto il comando NATO. Il supporto ausiliario agli Stati Uniti continuò sino all’agosto 2003 quando la NATO assunse il comando di ISAF. Si era progressivamente fatta strada la considerazione che impegnare la NATO in ISAF avrebbe offerto un’ulteriore opportunità per dimostrare la capacità di adattamento dell’Alleanza, fungere come meccanismo istituzionale per la cooperazione su un dato problema in cui altri attori, segnatamente gli Stati Uniti, avevano un’agenda strategica. In tal senso, ISAF costituì un forum valido per impegnarsi senza dover rientrare nettamente nell’operazione statunitense Enduring Freedom. La partecipazione NATO costituì anche un modo per riconquistare il consenso statunitense e rinvigorire le relazioni transatlantiche, logorate dall’opposizione all’intervento in Iraq.
Gli Stati Uniti avrebbero dovuto agire come l’agente dell’ordine nel mondo, diretta o meno che fosse la minaccia. In un suo discorso pronunciato nel 1999, il l’allora candidato alla presidenza Bush Jr. identificò i nemici che gli Stati Uniti avrebbero dovuto fronteggiare. Tra questi figuravano i terroristi e i dittatori squilibrati. Inoltre, la National Security Strategy 2002 definì l’11 settembre come un momento di opportunità per espandere i benefici della libertà nel mondo e per modificare ulteriormente il sistema internazionale a loro favore. Intraprendendo una strategia offensiva nel Medio Oriente Allargato, l’intervento finì per eccedere i suoi stessi fini militari e strategici.
La NATO in Afghanistan
Nonostante l’assenza di un razionale strategico articolato in obiettivi, l’11 agosto 2003 la NATO intraprese la sua prima missione “out of area”, espandendo notevolmente il concetto, peraltro già vago. Tuttavia, essa fu anche l’ultimo atto della transizione intrapresa dall’Alleanza che abbandonava la postura assunta fino a quel momento per abbracciarne una nuova, cruciale per la sua sopravvivenza. La missione in Afghanistan divenne una cartina tornasole per l’Alleanza stessa, ma il processo di adattamento non fu privo di criticità.
La costante con la quale la NATO dovette confrontarsi furono le aspettative disattese. Le condizioni non migliorarono progressivamente come previsto dall’OPLAN 10302. Al contrario, le forze dell’Alleanza dovettero agire preventivamente per difendersi cosicché ISAF, oltre a proteggere la ricostruzione del Paese ispirata al Piano Marshall del secondo dopoguerra, intraprese azioni di counterinsurgency. Al termine del 2006, per ottimizzare l’espletamento di tali funzioni in risposta all’insurrezione difensiva, la NATO assunse il comando totale della missione ISAF mentre il mandato di ISAF fu trasferito dalle Nazioni Unite alla NATO, che assunse la leadership dello sforzo di stabilizzazione e ricostruzione.
Il contrasto all’insurrezione fu complicato dalla lotta al traffico di oppio, di cui ISAF era incaricata. Nel 2006, l’Afghanistan forniva il 92% dell’oppio mondiale. Sebbene la produzione risultasse azzerata nelle province settentrionali nel 2007, la produzione aumentò del 45% a Helmand, nel sud del Paese. L’oppio nutriva la corruzione, già dilagante in Afghanistan, ma nutriva anche gran parte del popolo, costituendo circa il 40% del GDP nazionale. Ciò nonostante, bisognava spezzare il nesso che intercorreva tra il traffico di droga, gli insorti e i signori della guerra perché interrompere il commercio di oppio avrebbe limitato anche i profitti che alimentavano l’insurrezione ma aumentò il divario tra il popolo afgano e le forze internazionali.
ISAF in Afghanistan portò le difficoltà dell’Alleanza, tra cui la mancata propensione a impiegare un numero maggiore di soldati per operazioni combat e la paucità di risorse. I caveat avanzati dagli stati membri erano copiosi tanto che, nell’ottobre 2006, il NATO Supreme Allied Commander stimò che vi fossero 102 restrizioni nazionali, la metà delle quali ostacolava significativamente la missione.
Le difficoltà furono considerevoli anche nell’ambito dell’addestramento delle forze di sicurezza locali, poche e manchevoli dell’addestramento necessario a fronteggiare i Talebani. Storicamente le forze di polizia si sono dimostrate attori cruciali nella lotta all’insurrezione grazie ai legami con la popolazione. Tuttavia, le forze addestrate alla fine del 2004 furono 33.000 contro le 50.000 previste. Bisogna inoltre considerare che i territori trasferiti sotto la loro protezione dalla NATO non rimasero a lungo sicuri, al contrario furono riconquistati dalle milizie Talebane. Solamente tra il 2008 e il 2009 la NATO articolò una strategia, inaugurando un trend positivo. Lo sforzo strategico sembrò dare i primi frutti alla fine del 2013, quando il 90% delle attività era condotto da forze locali e il numero degli addestratori diminuiva costantemente. Un anno più tardi, la NATO affidò i centri di addestramento alle forze afgane e terminò le operazioni combat.
Il 1° gennaio 2015 fu inaugurata la missione Resolute Support il cui obiettivo era addestrare, consigliare e assistere le forze di sicurezza e le istituzioni.
La NATO fuori dall’Afghanistan
Una delle determinanti che spinsero la NATO a perpetrare nella missione fu la paura delle conseguenze del fallimento. In Afghanistan, si rischiava la credibilità e l’esistenza dell’Alleanza. Obiettivi tesi alla creazione di sistemi democratici, pacifici e stabili eccedevano le competenze NATO. Così acquisì rilevanza l’articolo 2 del Trattato perché la capacità di evolversi e adattarsi al mutato contesto internazionale, svolgendo funzioni non strettamente militari, era funzionale a dimostrare la valenza della NATO e la sua resilienza rispetto alle alleanze storicamente costituitesi. Da un lato, la dimensione securitaria emergeva nella protezione e nell’avanzamento di valori liberal-democratici, mentre il ruolo di difesa collettiva era riscontrabile nei tentativi di combattere gli attori transnazionali, intesi come minacce per la sicurezza della comunità internazionale.
L’Afghanistan è divenuto sostanzialmente un gioco a somma zero per la NATO, la cui necessità dell’impegno è stata rinsaldata dagli obiettivi umanitari e dal timore, divenuto solidale, della minaccia terrorista. Inoltre, la consapevolezza che la disfatta non sarebbe stata limitata alla missione spinse i governi ad assumere crescenti responsabilità che, di riflesso, si tradussero in maggiore adattabilità della NATO. Seppur tardivamente, la coesione politica fu rafforzata dalla coesione operativa e tattica che permise di superare le differenze di cultura strategica e la diversità di risorse disponibili. Pur nondimeno, l’Afghanistan potrebbe costituire il limite massimo oltre il quale la NATO non si spingerà in futuro.
L’impegno ventennale della NATO in Afghanistan è tanto un successo quanto un insuccesso. La comunità internazionale ha di fatto dimostrato un maggiore interesse nel perseguimento degli obiettivi in Afghanistan del governo nazionale stesso, fornendo direttamente beni pubblici in uno stato debole e, al contempo, tentando di sviluppare la capacità dello stato di erogare lo stesso bene. Ciò ha fatto sì che i leader locali non si esponessero implementando politiche impopolari, seppur efficienti, perché particolarmente sensibili ai risultati elettorali e consapevoli che la comunità internazionale sarebbe intervenuta a colmare i deficit, soprattutto di natura securitaria.
L’inadeguatezza della condizionalità offerta ha creato effetti distorsivi, in quanto gli aiuti hanno estinto l’incremento della capacità domestica, lasciando il Paese preda di corruzione e settarismo prima e dei Talebani poi, come dimostrano i recenti avvenimenti e, in particolare, lo sgretolarsi delle forze di sicurezza e la fuga del primo ministro.
Gli ultimi avvenimenti non fanno che gridare al fallimento dell’Occidente in Afghanistan. Il futuro della NATO è una preoccupazione ulteriore. Sarà l’Afghanistan, o il ritiro dal Paese, a rompere l’Alleanza? Non proprio. Tuttavia, la visione di una NATO 2030 che si adatti ad una nuova normalità più instabile, che sia più forte militarmente e unita politicamente nonché centrale per l’ordine internazionale adottando un approccio globale, come auspicato dal Segretario Generale, potrebbe uscirne ridimensionata. Nella nuova fase del sistema multipolare, la geopolitica conta più che mai. Così come le considerazioni politiche non hanno mai smesso di contare, le considerazioni geografiche riacquisteranno la rilevanza che spetta nella competizione tra grandi potenze.
Elisa Maria Brusca,
Geopolitica.info