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DossierRussia e Usa, solo una questione geopolitica? 2/3

Russia e Usa, solo una questione geopolitica? 2/3

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Le linee direttrici della politica della Russia di Putin che ho cercato di riassumere nel precedente saggio, sono bene espresse nel discorso all’assemblea federale della Federazione Russa del 12 dicembre 2013, che possono essere sintetizzate in due principali concetti: conservatorismo nei valori, progressi­smo sui temi economici e sociali.

Scontro di civiltà?

Come si nota acutamente su un sito in lingua francese che si occupa di geopolitica, si tratta di un rovescia­mento speculare del paradigma prevalente in Occidente e accettato ormai dalle forze politi­che maggioritarie di centrodestra e centrosini­stra: conservatorismo sui temi economico-sociali (nel senso di accettazione incondizionata del mercato con al massimo qualche timidissima correzione) e progressismo nei valori, nel senso di rifiuto e dissoluzione di ogni valore tradizio­nale. Due al­tre cose sono da sottolineare in quel discorso di Putin. Il richiamo al fatto che quei va­lori  so­no profondamente radicati nel popolo e quin­di la loro conservazione è si­nonimo di democrazia in contrasto col tentati­vo di estirparli per imporre alla vita reale idee astratte, come accade nei paesi occidentali, e il rifiuto del relativismo che non sa o non vuole distinguere fra bene e male. Ma questi non sono altro che i fondamenti di una società comunita­ria, che richiede un idem sentire, un cemento spirituale forte la cui carenza spiega il fallimen­to del comunismo sovietico basato infine sulla concezione economicista dell’in­teresse di classe, derivata dallo stesso Marx.

Difficile dar torto al filosofo Alexandr Dugin, fondatore e presidente dell’associazione Eura­sia, che individua nel modello americano una sorta di nichilismo attivo.

Se l’identità si definisce partendo da ciò che le si oppone, ossia in termini à la Carl Schmitt dalla logica amico-nemico, in un mondo multipolare, osserva, l’Occidente si è ritrovato senza nemici, rivolgendosi così al proprio interno. La Russia putiniana, in questa chiave di lettura, è l’ultima speranza per l’occidente di trovare un avversario fuori dai propri confini. Fallito questo tentativo, il processo di auto dissoluzione già in atto subirà un’accelerazione. La dissoluzione in­terna di legami, di cui le recenti crisi finanziarie sono un sintomo, non la causa, la fine del lavoro, della famiglia, la neo schiavitù, le nuove genera­zioni iper-tecnicizzate ma consegnate alla «de­mentia digitalis», il bio potere spinto all’estremo… Tutto convergerà verso quel centro che ha un nome semplice e fragile al tempo stesso: la vita. Con quali conseguenze, è facile ma al tempo stesso ter­ribile immaginarlo. Se la lettura di Dugin è cor­retta, il turbocapitalismo finanziario svuoterà l’individuo di ogni residuo legame col mondo.

Per Dugin gli Stati Uniti rappresentano la for­ma della modernità assolutizzata, senza radici. Vecchio mondo europeo o russo rappresenta la tra­dizione, ovvero la modernità con radici. Il con­cet­to di Eurasia è così il concetto di realtà radicata. Si tratta, quindi di un concetto di civilizzazione che non si basa sulla dimensione universalista e mercantilista, ovvero su un’an­tro­pologia indivi­dualista. Tutt’altro. In questo senso, Eurasia come concetto è sinonimo di conservazione del vecchio mondo, a fronte del nuovo mondo.

Sia i concetti espressi da Dugin, sia quelli conte­nuti nel discorso di Putin, si richiamano all’eredi­tà spirituale di Alexandr Solženicyn. Lo scrittore, che pure aveva combattuto contro i nazisti nelle file dell’Armata Rossa, fu esiliato nel 1974 prima in Svizzera e Germania, poi negli Stati Uniti. Qui, dapprima osannato per il suo anticomuni­smo, dovette poi patire tutta la delusione per quel­l’Occidente in cui riponeva le sue speranze. Nel discorso tenuto ad Harvard l’8 giugno 1978 in occasione del conferimento delle laurea ad honorem in letteratura, dal titolo «Un mondo in frantu­mi», così espresse i suoi sentimenti: «Non posso raccomandare la vostra società come ideale per la trasformazione della società sovietica», per­ché il cammino che abbiamo percorso a partire dal Rinascimento ha arricchito la nostra esperien­za, ma ci ha fatto anche perdere quel Tutto, quel Più alto che un tempo costituiva un limite alle nostre passioni e alla nostra irresponsabilità. Ab­biamo riposto troppe speranze nelle trasformazioni politico-sociali e il risultato è che ci viene tolto ciò che abbiamo di più prezioso: la nostra vita interio­re. All’Est è il bazar del Partito a calpestarla, all’Ovest la fiera del commercio.

Parole inequi­vocabili, che se lette alla luce di quest’altre:

Vera­mente non esiste al di sopra dell’uomo uno Spirito supremo? Veramente la vita dell’uomo e l’attività della società devono anzitutto valutarsi in termini di espansione materiale?

ed alla critica al siste­ma occidentale dei media:

La stampa (uso la pa­rola ‹stampa› per designare tutti i mezzi di in­formazione di massa) è diventata la più grande potenza in seno ai paesi occidentali…

Ma an­dare al nocciolo dei problemi le è controindica­to, non è nella sua natura; essa non considera che le formule a sensazione. L’Occidente, che non ha una censura, opera tuttavia una selezio­ne puntigliosa separando le idee alla moda da quelle che non lo sono… Senza che vi sia, come nell’Est, aperta violenza, questa selezione ope­rata dalla moda… impedisce ai pensatori più originali di apportare il loro contributo alla vita pubblica, e provoca la comparsa di un pericolo­so spirito gregario che è d’ostacolo a uno svi­luppo degno di questo nome disegnano la di­stanza della sua concezione tanto dall’esperien­za del socialismo reale quanto dalle società ca­pitalistiche occidentali. Nelle quali, dopo la ca­dute dell’Urss, è stato accusato di oscu­rantismo reazionario da parte del variegato mondo liberal e progressista. La proposta di Solženicyn non è però la riedizione reazionaria della società castale, ma semplicemente quella di una società che, senza disdegnare affatto la ricchezza materiale, non impoverisca spiritual­mente gli uomini. Valgano allora queste parole di Eugenio Corti a commento di quel discorso.

Ciò che più colpisce chi scrive queste note è però un’altra cosa: il fatto che i cristiani anzi i cattolici non abbiano immediatamente individuato nel di­scorso di Solženicyn il discorso che è stato loro pro­prio finché la cultura cattolica non è entrata nell’attuale stato di confusione.

Mosca la terza Roma?

Riemerge il sogno di Mosca come terza Roma, oggi in opposizione all’impero statunitense e legittima erede spirituale di Bisanzio, rivendicato fin dalla metà del 1400 da Ivan III di Moscovia. A quel tempo la rivendicazione poggiava anche su basi religiose, e la Russia si poneva come difensore della Chiesa Ortodossa, oltre che contro l’Islam, anche contro il principio di supremazia del papato roma­no. La prima Roma era collassata a causa delle sue debolezze interne oltre che per le invasioni barbariche, Bisanzio era caduta per mano turca, Mosca si propose come loro erede, e centro della Cristianità.

Il sogno della Russia erede dell’Impero romano è stato inseguito con tenacia dagli Czar, ma non si è interrotto, nemmeno nel periodo comunista, allorché Stalin fece del proprio paese il centro mondiale dell’inter­nazionalismo proletario, do­vendo però anch’egli ricorrere ai vecchi sim­boli religiosi, come quando nell’autunno del 1941, alla vigilia della Battaglia di Mosca, fece sorvolare la capitale da un aereo su cui era stata caricata l’icona della Madre di Dio di Vladimir per invocarne l’aiuto contro l’attacco tedesco.

Complessivamente, anche da questa angolazione si ripropone la radicale alterità fra il potere impe­riale degli USA, esercitato lasciando autonomia giuridica ai paesi nella propria orbita ma unifi­candoli sotto il proprio modello economico e politi­co, e la concezione di impero classica, che invece, ferma l’unità amministrativa, intende rispettare le differenti tradizioni religiose e culturali.

L’emergere della Russia come potenziale centro d’aggregazione culturale ed economico alternativo agli USA, propone (o ripropone) in maniera strin­gente due ordini di problemi, l’atteggiamento e le scelte dell’Europa occidentale e i rapporti fra la Chiesa cattolica e quella ortodossa, problemi che non coincidono ma si intrecciano.

L’Europa fra Usa e Russia

Per Putin, nonostante che la maggior parte del suo territorio si estenda in Asia e funzioni da cer­niera con l’Oriente, la Russia è Europa, e l’Euro­pa non potrebbe dirsi tale senza la Russia. E ciò dal punto di vista spirituale, culturale, sociale ed anche economico.

Se ai tempi dell’Urss potevano esserci pochi dubbi sulla scelta di schieramento, oggi la situazione sembra radicalmente mutata, quasi rovesciata.

Il Capitale, almeno nell’Occidente, si è affrancato dal politico che anzi ha subordinato a sé preten­dendo che i propri interessi coincidano con quelli della comunità; la lotta di classe del proletariato si è stemperata in rivendicazioni puramente sinda­cali nel quadro di un’ac­cettazione incondizionata dei rapporti di produzione capitalistici da un lato, e dall’altro nell’accettazione altrettanto incondi­zionata da parte dei suoi pretesi rappresentanti po­litici, dei canoni culturali propri del capitale (ato­mismo individualista, così detti diritti umani e civili, scientismo elevato a nuova religione, dissi­mulati sotto il concetto di democrazia rappresen­tativa); l’Urss socialista e atea è implosa, lascian­do però dietro di sé, oltre alle macerie, anche il ri­cordo del tentativo di conservare una forma, chiaramente ripreso dalla nuova Russia di Putin.

Il capitalismo finanziario e globalizzato a guida Usa si è insomma emancipato dalle sue precedenti limitazioni e sta dissolvendo ogni tradizione reli­giosa e culturale, insieme anche al concetto di clas­se, in nome di un universalismo cosmopolita e astratto. Sta cioè recidendo le radici culturali nate proprio nella vecchia Europa e frantumando ogni forma estranea a quella della merce, mentre, al­meno nelle intenzioni, quelle radici sono rivendi­cate dalla Russia cristiana.

L’Europa occidentale si trova quindi dinanzi ad una scelta epocale, che Claudio Bonvecchio sinte­tizza

1) fra abbandono definitivo delle sue origini profonde o loro riscoperta, in modo da costruire un modello da offrire al mondo come viatico per un uomo nuovo e consapevole di essere faber, sa­piens, e sacer;

2) fra il mantenimento di comuni­tà statuali ormai troppo piccole e conflittuali, o la prospettiva di un’entità sovranazionale che com­prenda sia lo scacchiere mediterraneo che quello est-europeo e che, nel rispetto delle sin­gole specifici­tà, riunisca, sotto l’egida di un’unica Signoria, la realtà politica oggi frammentata in mille rivoli insignificanti. Tale Signoria, necessariamente su­pra partes (ma non per questo autoritaria o totali­taria) […], poco importa se impersonata da un in­dividuo, da un gruppo o da un Consiglio, deve possedere quella sacralità che discende dall’eserci­zio di un’alta e trascendente missione;

3) fra un’economia che privilegi il liberismo, il denaro, il capitale finanziario, la competitività, la pro­duttività esasperata, il cieco consumo, lo sfrutta­mento dei meno protetti, in un delirio in cui il mercato è il triste spiritus reffior», o quella in cui «la sfera politica deve esercitare uno stretto con­trollo sull’economia, piegandola, con durezza se necessario, alle sue leggi e non viceversa.

Certamente il modello d’Europa auspicato da Bonvecchio non somiglia neanche lontanamente all’attuale Unione Europea, che anzi ha rescisso, rifiutando di citarle nella sua Costituzione, le sue radici greco-giudaico-cristiane, che rifiuta ogni valore e ogni tradizione religiosa da cui è nata in nome di una malintesa laicità, che appare priva di autonomia politica dal partner statunitense e pro­na ai voleri del mercato e dei finanzieri. È vero che in molti dei suoi paesi si manifestano disagi, contraddizioni, insofferenze per questa Europa, ma credo di non sbagliare dicendo che da sole, que­ste forze sono destinate alla sconfitta.

I rapporti tra Ortodossia e Cattolicesimo

Non credo sia improprio riportare questo passo di Carl Schmitt del 1923:

È impossibile una riunificazione fra la Chiesa cattolica e l’odierna forma dell’industrialismo capitalistico. All’alleanza di trono e altare non seguirà quella di ufficio e altare, né quella di fabbrica e altare […] Rimane tuttavia ben vero che il cattolicesimo saprà adattarsi a ogni ordi­ne sociale e politico, anche a quelli in cui domi­nano gli imprenditori capitalistici o le organiz­zazioni dei lavoratori e dei consigli di fabbrica. Ma questo adattarsi gli è possibile solo se il po­tere basato su una situazione economica sarà di­venuto politico, cioè se i capitalisti o i lavoratori giunti al potere si assumeranno la responsabili­tà, in tutte le forme, della rappresentazione sta­tale. Allora, il nuovo potere sarà costretto a far valere una situazione diversa da quelle pura­mente economiche o di diritto privato; il nuovo ordine non può esaurirsi nella gestione del pro­cesso di produzione e di consumo, poiché deve essere formale […] Il dominio del capitale eser­citato dietro le quinte, non è ancora una forma, anche se può certamente svuotare una forma politica esistente e ridurla a vuota facciata. Se il capitale riesce in questo intento, potrà dire di avere completamente spoliticizzato lo Stato; se il pensiero economico riesce a realizzare i pro­pri fini utopistici, di condurre la società umana ad una condizione assolutamente impolitica, la Chiesa resterà l’unica depositaria di pensiero politico e di forma politica: deterrebbe così un monopolio mostruoso, e la gerarchia ecclesiasti­ca sarebbe allora più vicina al dominio politico mondiale di quanto lo sia mai stata nel medioe­vo. Ma secondo la sua stessa teoria e la sua struttura ideale, la Chiesa non dovrebbe affatto desiderare una situazione di questo tipo, dato che presuppone accanto a sé lo Stato politico, una societas perfecta e non un trust d’interessi. La Chiesa vuole convivere con lo Stato, in quella particolare forma di comunità in cui due rappresentazioni si stanno di fronte come part­ner.

È ben vero che Schmitt si riferisce alla Chiesa Cattolica, e che vedeva nello spirito russo «che volge le spalle all’Europa», combinato con la lotta di classe del proletariato industriale urba­no, l’avversario della tradizione europeo-occi­dentale e della sua cultura, tuttavia scrive anche:

Io so che nell’odio russo contro la cultura oc­cidentale può esserci più cristianesimo che non nel liberalismo e nel marxismo tedesco, che grandi cattolici hanno considerato il liberali­smo un nemico peggiore dell’aperto ateismo so­cialista e che, infine, nell’assenza di forma po­trebbe esserci la forza potenziale capace di una nuova forma, capace cioè di dar forma anche all’epoca tecnico-economica.

I rapporti fra cattolicesimo e Chiesa russo-ortodossa sono sempre stati difficili fin dallo scisma del 1054, nonostante la riconosciuta vi­cinanza sul piano dogmatico e morale, sul quale non mi addentro per mancanza di competenza e perché è una problematica che esula dagli scopi di questo scritto. Mi limito perciò ad accennare al problema sorto in seguito alla decisione della Santa Sede di erigere come diocesi le quattro amministrazioni apostoliche costituite in Russia negli anni Novanta: a Mosca, Saratov, Novosi­birsk e Irkutsk.

In quell’occasione il Patriarcato di Mosca accu­sò in sostanza la Santa Sede di proselitismo indebito nel territorio canonico della Chiesa Or­todossa.

La fondazione di una «provincia ecclesiasti­ca», una «metropolia», significa di fatto la fon­dazione di una Chiesa Cattolica nazionale in Russia, che ha il suo centro a Mosca, e che van­ta il popolo russo (che culturalmente, spiritual­mente e storicamente è il gregge della Chiesa Ortodossa Russa) come proprio gregge. La formazione di una tale chiesa in Russia significa di fatto una sfida all’Ortodossia che è stata radi­cata per secoli nel paese.

Per risposta il cardinale Walter Kasper, all’ini­zio nel 2002 pubblicò su La Civiltà Cat­tolica, un documento dal titolo «Le radici teologiche del conflitto tra Mosca e Roma» in cui scrisse fra l’altro:

La Chiesa ortodossa russa da più di un decennio si trova posta di fronte al mondo moderno pluralista, dopo un lungo periodo di oppressione comunista. Si capisce pertanto come essa sia ancora alla ricerca di una sua col­locazione. E questo richiede pazienza da parte nostra. Essa si mantiene ancora chiusa e ritiene che la libertà religiosa sia soltanto espressione del­l’in­dividualismo liberale dell’Occidente. Per essa il coinvolgimento sociale e culturale ha la precedenza rispetto alla libertà personale, anche per quanto riguarda la pratica religiosa.

Diventa chiaro così quale sia il profondo retro­scena teologico che si nasconde dietro il dibat­tito sul principio del territorio canonico e del proselitismo. Le argomentazioni della Chie­sa ortodossa russa sono sostanzialmente di natura ideologica; essa difende non solo una realtà rus­sa che ormai non esiste più, ma anche una rela­zione tra Chiesa e popolo oppure tra Chiesa e cultura, che è problematica sul piano teologico e tende ad assicurare l´egemonia della Chiesa ortodossa russa a detrimento non solo della Chiesa cattolica ma anche della libertà della persona.

Si vanno così delineando i contorni del conflit­to, per capire meglio il quale faremo riferimen­to ad un articolo di Vladimir Zelin­skij, sacerdote ortodosso e docente di Lingua e civiltà russa all’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Zelinskij distingue tre tendenze all’interno del­la Chiesa Ortodossa:

L’integralismo, nelle due versioni teo­logica-ecclesiale e politica. Per la prima l’Or­to­dossa è l’unica Chiesa di Cristo, mentre nelle altre non esistono più né grazia né salvezza. Il dialogo e l’ecumenismo sono dunque eresie in­gannevoli e pericolose. La seconda è caratteriz­zata da un forte antioccidentalismo e antisemi­tismo, e il dialogo non esiste nemmeno sotto forma di ravvedimento. È dichiaratamen­te osti­le verso tutti i cristiani non ortodossi ma anche verso gli ortodossi colpevoli di ecumenismo. Questo tipo d’integralismo si caratterizza come movimento politico ultranazionalista d’estrema destra, composto per la maggior parte da ex membri del partito comunista, che inneggia alla monarchia assoluta e chiede l’assoluto divieto di attività sulla terra ortodossa per qualsiasi altra religione. C’è, infine, anche una terza versione dell’integralismo, quella dei convertiti da altre confessioni, in specie quella cattolica, per i qua­li l’ecumenismo è solo un dannoso mischiarsi con il papismo.

L’ecumenismo, il gruppo meno nume­roso, per niente influente politicamente ma presente sul terreno culturale, che cerca l’unità con la Chiesa Cattolica come «guarigione dalle malattie interne all’Ortodossia», l’integralismo, lo spirito conservatore, la chiusura al mondo contemporaneo.

Il tradizionalismo, senz’altro la componente più numerosa e influente della Chiesa Ortodossa. Gli appartenenti a questo gruppo sono fortemente radicati nel patrimonio dogmatico della Chiesa, e nutrono un amore spirituale, «ma anche viscerale, verso tutta l’eredità di fede custodita dalla Chiesa», e verso tutte le sue manifestazioni: «la vita dei santi, la melodia del canto, la solennità delle celebrazio­ni, la lingua delle preghiere, la semioscurità del tempio con le sue icone». I tradizionalisti non scindono «lo spirito ascetico dal corpo fisico, storico, nazionale, a volte anche etnico». Per loro l’attaccamento alla fede vuol dire anche terra, popolo, patria.

Solo rispettando questo bagaglio, prosegue Ze­linskij, il tradizionalismo potrà aprirsi al dialo­go senza diventare antioccidentale.

Se per la maggior parte dei cattolici andare al passo coi tempi è considerato un impegno anche religio­so, per la maggior parte degli ortodossi essere cristiani significa ‹essere fedeli alla fede dei pa­dri›, anche al prezzo di essere culturalmente e psicologicamente tagliati fuori dal mondo.

È questo il gruppo a cui la Chiesa di Roma do­vrebbe rivolgersi per il dialogo. Senza facile ot­timismo, né chiusura dovuta all’errore di con­fondere il tradizionalismo con l’integralismo e quindi tracciando il confine immaginario dell’Europa nel punto in cui comincia l’orto­dossia, ma capendo soprattutto che gli ortodos­si, dopo la caduta dell’Urss, si sono sentiti asse­diati «dalle sette provenienti dal­l’o­riente e dall’occidente, e soprattutto da quella stessa Chiesa cattolica che dopo il concilio Vaticano II si era proclamata sorella», e che agli occhi degli ortodossi hanno fatto della Russia una terra di conquista approfittando della debolezza materiale e della carenza di personale religioso dopo settant’anni di comunismo.

Credo sia ora più chiara la materia del compe­tere, che per quanto riguarda lo scopo di questo articolo, si focalizza sulla diversa interpretazio­ne del rapporto fra Stato e Chiesa che nasce dal diverso significato del concetto di libertà della persona: declinato più in termini comunitari nel caso della Chiesa ortodossa, più in termini indi­viduali in quello della Chiesa cattolica.

Se per gli ortodossi fede significa anche con­temporaneamente terra, popolo e patria, si com­prende meglio anche la natura del rapporto fra le istituzioni politiche e religiose della Russia postcomunista, ognuna della quali si nutre dell’altra in un rapporto biunivoco, ma si capi­sce anche la differenza rispetto al­l’u­niversali­smo aterritoriale della Chiesa cattolica alla quale è estraneo il concetto di Chiesa nazionale.

Se terra, popolo e patria sono elementi comuni a Chiesa e Stato, le due entità tenderanno, al­meno parzialmente, a sovrapporsi, e comunque non possono essere pensate come forme concet­tualmente del tutto separate, ragione per cui l’alleanza fra trono e altare non potrà essere identica a quella convivenza fra partner di cui scrive Schmitt.

Da quell’epoca sono passati quasi cent’anni. Nel frattempo il processo di spoliticizzazione delle istituzioni statuali sempre più ridotte a funzioni subordinate del meccanismo imperso­nale del capitale è avanzato ulteriormente, ma la gerarchia ecclesiastica mai come ora appare lontana da quel dominio politico mondiale pre­visto da Schmitt. Mi sembra dunque legittimo chiedersi non solo se la Chiesa cattolica abbia compreso fino in fondo il significato del pro­cesso di spoliticizzazione dello Stato operato dal capitale, ma anche se non sia stata essa stes­sa coinvolta in quello stesso processo assecon­dando la pretesa di chi la vorrebbe e­spel­lere dal politico per confinare la religione in un ambito puramente personalistico come scelta soggettiva priva di influenza sulla vita pubblica.

Se sono riuscito a delineare le ragioni della sto­rica diffidenza fra le due Chiese, è anche vero tuttavia che quelle stesse ragioni si collocano oggi in un contesto storico profondamente mu­tato, tanto da far pronunciare all’ar­civescovo Hilarion, ministro degli Esteri del patriarcato moscovita in visita all’allora pontefice Benedet­to XVI, le seguenti parole:

Per noi è evidente che oggi la Chiesa ortodossa e quella cattolica non possono più essere separate come è stato in passato, ma al contrario essere alleate, aprirsi alla cooperazione. Davanti a noi si apre un campo vastissimo nel quale il Signore ci chiede di lavorare: il campo del mondo scristianizzato di oggi,

nel quale riproporre la comune visione cristiana della famiglia, della procreazione, di un amore umano fatto non solo di piacere, di giustizia sociale, di una più equa distribuzione dei beni, di impegno per la salvaguardia dell’am­biente, per la difesa della vita umana e della sua dignità.

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